Questo mese Muzak dedica una grossa fetta dello spazio musicale all'argomento « crisi del pop », questa crisi che sembra essersi abbattuta su tutto quello che era il movimento collegato ai battiti del cuore musicale di New York, Londra. In Italia questo cuore ha avuto (meno male!) dei battiti non troppo regolari: lo dimostra il fatto che mentre le scene musicali, quelle che contano anche economicamente, d'Inghiltera e di recente soprattutto d'America, continuano ad essere caratterizzate da una parte dal fenomeno del grosso show (Tubes, Alice Cooper etc.) e dall'altra dal recupero conservatore della figura del vagabondo dylaniano (ritorno dello stesso Dylan e vari Springsteen e Patty Smith) il pubblico e gli artisti italiani cominciano a non soffrire più del complesso di inferiorità che portò ad un certo punto molti dei nostri gruppi a farcirsi di King Crimson e Genesis. Nei paesi dove lo showbiz (l'industria dello spettacolo) contribuisce ancora al bilancio economico non esistono più mezzi termini o falsi pudori. Alice Cooper si compiace di farsi accompagnare in scena da mostri sempre più elaborati e usa effetti scenici che costano milioni perché il pubblico stanco e annoiato vuole « spettacolo ». Sostanzialmente afflitto dalla stessa noia un altro genere di spettatore americano se ne va invece costantemente in giro fo blue jeans, maglietta bianca e giacchetta in pelle nera e, avendo riscoperto dopo l'ondata psichedelica i piaceri della bottiglia, si compiace di raccontare (con espressioni alla Keruac) di quando ha assistito al primo concerto di Dylan. Senza togliere nulla al valore di Bob Dylan o Bruce Springsteen come poeti ecome musicisti questa tendenza a giocare al « sessantacinque » (nel senso dell'anMusica Il pubblico él'ultima popstar no) è chiaramente nostalgica e in questo senso conservatrice. Cos'è infatti la nostalgia se non un modo di esprimere il timore per il cambiamento, l'evoluzione? Venendo allo specifico italiano parlare di crisi del pop dovrebbe significare parlare Al Ice Cooper 24 di crisi di idee da parte degli artisti e naturalmente del pubblico che, da che pop è pop, ha sempre pesato in manirera decisiva sullo sviluppo dei fenomeni musicali (basti pensare alla « beatlemania » a ai Beatles). E invece dal Muzakoncerto di Piazza Navona a Licola, dai vari fe. stivai jazz agli incontri musicali su temi politici, il pubblico italiano è andato ultimamente ricercando nella musica l'opportunità di un momento creativo insieme a tutti i compagni, quello che sostanzialmente tende a scomparire in paesi come l'Inghilterra dove, una volta acquistato il biglietto, lo spettatore medio batte le mani, chiede il bis (un paio di volte è la regola) e poi se ne va a casa apparentemente soddisfatto. Il succes· so di gruppi che, come il Canzoniere Del Lazio e la NCCP, si riallacciano a radici popolari squisitamente regionali dimostra la vittoria avvenuta da parte del1'ascoltatore medio sul complesso che fino a poco tempo fa gli faceva arricciare il naso di fronte a tutto ciò che non fosse cantato in inglese. Ma non solo: in un momento in cui il pop perde in quasi tutto il mondo di spontaneità, il pubblico preferisce riempire la propria immaginazione con colori e melodie in qualche modo frutto di un patrimonio popolare anche se mai ascoltati coscientemente prima. Così il « Saltare11oDella Tolfa » o la « Rumba Dei Scugnizzi» «gasano» ormai anche l'amante del pop esigente, più di qualsiasi confessione intima dell'ultimo giovane - bruciato - nato - per - correre. In definitiva il momento è buono per la musica. Si comincia a riinquadrare l'occasione in maniera creativa. Il pubblico ancora una volta vuole ascoltare musica e addirittura crearla, sia praticamente che indirettamente col proprio giudizio. Chi in questa nuova situazione si muove più a rilento sono (come sbagliare?) gli operatori del settore, i discografici che continuano a spingere i tristi nomi di sempre. Danilo Moroni
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