Teatro Dallestalle allestelle Tra invettive, bestemmie lungWssime, comunismo e disperazione sessuale, Roberto Benigni, cantautore incompreso dell'amore fra i contadini e le loro mucche,raccWude nel suo spettacolo tutto il sonoro delle osterie. Bestemmie e invettive, lunghe, biascicate, che si rincorrono in crescente oscenità. Funzioni fisiologiche elevate al rango proustiano di suggestioni-ricordo. Masturbazioni gloriose, gustose, cariche di particolari. E poi ancora insulti in perfetti endecasillabi « che ti venisse questo e quello » (tutta la gamma delle malattie veneree e delle maledizioni sessuali), contro Dio e contro la figa che non c'è. Non c'è mai ed è il problema centrale, insieme a « Berlinguer » (sussurrato e ammiccato in continuazione), l'ispirazione prima e ultima del Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, soliloquio in SO minuti di un proletario, un po' meno proletario degli operai di fabbrica e un po' meno tonto dei contadini. L'effetto immediato è un impasto sonoro di osteria cinemino di terz'ordine (c'è un vero pezzo di bravure in cui il Cioni assiste alla proiezione del film « le sette amanti di Dracula») e capannello della domenica mattina nella piazza del paese. Ma soprattutto osteria, luogo della socializzazione popolare, ricca di tutti gli umori di un comunismo ingenuo e simpatico, delle sbruffonate sessuali e anche di tutta la miseria del tariffario delle prostitute, sogni erotici, pesanti ironie contro gli omosessuali ( « buchi », come Almirante) e radicati valori di maschilismo. A recitare (ma forse sarebbe meglio dire cantare-mimare-interpretare) il monologo del Cioni è Roberto Benigni, ex contadino poco più che ventenne, iscritto al Pci, cantautore incompreso (nessuno vuole fargli incidere dischi per eccesso di oscenità) dell'amore fra chi lavora la terra e le sue bestie, in particolare le mucche. « Un giorno sono rimasto chiuso Roberto Benigni 54 in un ascensore con un mio amico per un'ora. Per distrarlo in attesa di soccorsi, gli ho fatto il Cioni Mario. Fu molto bello », ha raccontato Roberto Benigni, « chissà se fosse rimasto chiuso con Luca Ronconi », ha aggiunto per definire il suo modo di far teatro, antitetico al freddo sperimentalismo di laboratorio del regista d'avanguardia. Infatti per mettere in scena lo spettacolo di Benigni, c'è voluto poco: una lampadina, una camicia azzurra un po' scolorita abbottonata fino al collo, nient'altro neppure una sedia. Ed è teatro: è teatro perché l'attenzione del pubblico (stipato e ridente nel salone di via Alberico, a Roma, inaugurato per l'occasione) non perdeva una smorfia, perché il guittesco sussurrare e poi urlare e maledire di Benigni indicava e descriveva linguaggio e vita di una classe ben precisa, materiale, tangibile, di umanità. Senza eccedere né in sentimentali idealizzazioni della purezza incolta del contadino, né in impietoso ripercorrere la sua storica rozzezza. Il Cioni è stato tacciato di iperrealismo, Boccaccio ritardato, gusto gratuito del1'osceno. Ad alcuni festival dell'Unità hanno accolto Benigni con riserva, ad altri il pubblico ha reagito offeso con lancio fitto di salamini. I più si divertono, e anche questo è un atteggiamento un po' incosciente: in fondo il turpiloquio del Cioni sottintende la povertà, l'espropriazione di valori, di tanti uomini sepolti e isolati in decine di paesi imposssibili e dimenticati. In realtà Ciani Mario di Gaspare fu Giulia, tutto questo gran parlare di « figa, seghe e puttane » altro non è che la disperazione del sesso. C. R.
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