Muzak - anno III - n.08 - dicembre 1975

schermo da Garfield, Brando e James Dean. Egli colora la sua « asocialità», il suo non riuscire a credere nella organizzazione sociale che gli sta attorno e nelle prospettive che questa gli offre e che sono in pratica le stesse mafiosesche batture del cugino, di una carica di autodistruttività, di negazione a vuoto, destinata a ricadergli addosso con tutta la violenza di una situazione che non accetta emarginati troppo turbolenti e inossequienti ai « modelli » di comportamento stabiliti. In questo personaggio si identificano in modo impressionante (ne fanno fede gli entusiasmi dei giovani di borgata romani, o dei giovani napoletani dei « quartieri » per questo film) anche i nostri, di « ribelli senza causa », segno di una generalizzabilità del problema, anche da noi. Ma... Il ma per fortuna c'è, ed è grande: è il « ma » della lotta di classe. Uno Scorsese italiano (se in Italia esistessero giovani registi coi coglioni invece dei lazzaroneschi figuri dei « peccati veniali » e dei « profondi rossi » e dei piccolo-borghesi della Grande Arte e della Semantica) che descrivesse con conoscenza di causa i comportamenti giovanili del Tuscolano, o dei Quartieri di Napoli, o di Baggio e Quarto Oggiaro, o di Settim Torinese, dovrebbe tener presente anche un altro comportamento ivi presente massicciamente: quello di chi rifiuta entrambe queste false soluzioni. La prima, integrazione nel sistema del potere, sia esso la grande delinquenza organizzata o la politica (qui da noi il sottogoverno) con i loro interni legami, come la seconda, autoemarginazione nella delinquenza gratuita, nella rivolta insensata, nella pazzia nell'eroina e insomma in vari modi di suicidarsi. C'è infatti la terza, di cui Scorsese nella Litde ltaly non può tener conto perché forse non c'è o è troppo secondaria, ma che per nostra fortuna collettiva esiste, e come!, in Italia, anche se non se ne accorgono (non hanno occhi per accorgersene, non hanno voglia di accorgersene) i servi dei mass-media e gli intellettuali del sistema. La lotta di classe è presente in tutti i posti citati anche se oggi deve fare i conti più che mai con una situazione di disorientamento sociale indubbiamente gravissima, e in cui indubbiamente altre soluzioni premono con una violenza fino a oggi inusitata. La borghesia tende a trascinare nella sua decadenza il proletariato, si giova grandemente della autodistruttività di strati proletari, e la fomenta. Se nel film manca un'altra possibilità di scelta per i giovani proletari, quella dell'integrazione sul modello piccolo-borghese ( l'università, la professione) è perché Scorsese con ragione non la vede affatto contrapposta a quella mafiosa ma anzi dentro ad essa: non c'è fuga dalle Litt!e ltaly o dalla Chinatown, perché in piccolo esse non sono che l'esemplificazione più cruda, il portato più speculare e interno della società tardo-capitalistica nel suo complesso. Un pericoloso nemico da battere, nelle nostre città diventa dunque oggi come non mai anche quello dell'autodistruttività di un proletariato (o di un « sottoproletariato ») che non sa individuare le cause del suo disagio e della sua oppressione e non sa rivolgere la sua carica di rivolta contro di esse attraverso l'azione politica rivoluzionaria; un pericoloso nemico da battere è questa logica terribile e suicida di chi, incapace di individuare il nemico e di trovare con gli altri le strade del suo abbattimento, rivolge invece la sua rabbia contro se stesso o contro i propri simili, in definitiva in entrambi i casi contro se stesso. Goffredo Fofi Cinema AndreyRublev Regia: T1.rkowcky Bisogna affrescare con le sofferenze dell'inferno le bianche pareti delle cattedrali o costruire grandi campane di bronzo per chiamare e riunire tutti i contadini dispersi a lavorare la terra? Andrey Rublev monaco e pittore che non vuole credere ciecamente né alla religione né all'arte si aggira 'in un medioevo percorso da stragi e saccheggi, lotte di potere travestite di religioni, massacri e carestie, fi. no a capire, dopo un lungo silenzio in cui né parla né dipinge ma soltanto osserva il mondo e inorridisce, che l'uomo e non Dio è il centro della creazione. E' il passaggio dal medioevo all'umanesimo, dalle rigide icone bizantine ai dolcissimi CriAndrey Rublev sto con gli occhi cerchiati di Rublev, ma è anche la lotta per la giustizia terrena come unica soluzione al silenzio, una specie di socialismo santo, in cui la rivoluzione è religione che scende in terra: se Dostojewsky fosse un regista sovietico contemporaneo invece che un grande romanziere russo dell'ottocento, avrebbe firmato questo film insieme a Tarkowsky. Consigliamo a tutti di andare a vederlo senza lasciarsi scoraggiare dalla fama di « pezzo da cineteca » o dalla lunghezza (tre ore senza un minuto di prolissità). Unico difetto: il linguaggio delle immagini è talmente intenso e suggestivo da distrarre talvolta dai contenuti. L. R. Divinacreatura Regia: Giuseppe Patroni-Griffi Il revival di certo decadentismo se è per alcuni (vedi Visconti) compiacimento della propria impotenza di fronte alla storia e alla comprensione del mondo, assume per altri il valore, non da buttar via, della attenzione documentaria. In Divina Creatu• ra non è solo l'aristocrazia nera, l'ambiente marcio e sordido dei grandi elettori del fascismo a mostrarsi, ma soprattutto la cui-

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