Muzak - anno III - n.08 - dicembre 1975

Dischi The Who-The Who By Numbers-RCA Un grosso disco questo degli Who che riscatta la vecchia guardia inglese clie sta generando in questi giorni tanti revival di hard rock. Questa volta si tratta della « real thing », il prodotto originale, infatti gli Who sono, forse ancora più degli Stones, il gruppo che ha fatto uno sviluppo più coerente senza sprecare nulla delle lezioni d'entusiasmo prese a contatto del pubblico sessantottesco. Non è una questione di nostalgia: gli Who hanno la capacità di fare un rock trascinante come ai giorni di My Generation ma con un lessico musicale evoluto omogeneamente coi tempi. Questa opera si libera agevolmente della magniloquenza di Quadrophenia per tornare a soluzioni sonore più vicine se mai a Who's Next, forse il più glorioso album della band. Lo stile è quello di sempre semplice e asciutto ma la pratica di tanti anni di jam-sessions conferisce agli Who una disinvoltura a creare atmosfere che ha pochi corrispettivi nell'ambito del pop e che rende brani armonicamente piuttosto semplici come il bel valzer They Are All In Love eccezionalmente commoventi. Questa è una caratteristica che è sempre stata propria della musica del gruppo e che con questo brano si evidenzia: il fatto di essere coinvolgente, estremamente comunicativa. Anche la poesia di Townshend si è evoluta e, uscita dalla fumosità di Tommy, si ripresenta con testi semplici e toccanti. Ancora una volta ascoltiamo Who e ci viene comunicato il calore di tutta un'epoca musicale vista attraverso la lente di una delle bands più gloriose. La musica dei Who dice ancora qualcosa, e mentre Red Blue And Grey scorre accompagnata dagli accordi di un ukulele, il pessimismo di chi è abituato a vedere i propri eroi adagiarsi sugli allori subisce una volta tanto uno scossone. Quanti amici ho veramente? Quanti amici che mi amano, che mi vogliono, che mi accetteranno come sono? Ancora la voce di Daltrey ci parla di sensazioni ed emozioni di tutti i giorni con una immediatezza invidiabile. L'ingenuità corrosiva di My Generation si è trasformata in considerazioni più introspettive ma questo fa parte dell'evoluzione, una evoluzione che vede quella che forse è la migliore rock'n'roll band d'Inghilterra lavorare ancora con serietà ed entusiasmo. D. M. Bruce Sprlngsteen: Born to run (Columbia) Non esiste di meglio per scuotere il pubblico americano: buon talento nel costruire arrangiamenti in serie, voce d'effetto e un solido assetto ritmico. Che fatto distingua questo Bruce Springsteen dagli altri, però, non ci è dato a sapere. A mezzo fra il Bob Dylan più stereotipato e le sonorità del rythm'n'blues, con una voce roca e talvolta pur strozzata, il cantautore è il nuovo idolo dei teenagers un po', ma poco, cresciuti. Lanciato da un'enorme promozione pubblicitaria, Born to run ha raggiunto le parti alte delle classifiche, sebbene nettamente inferiore ai precedenti Greetings from Ashbury Park e The wild, the innocent and che Street Shuffle. In tali albu,m si coglieva per lo meno il tentativo di esulare dalla semplice discrezione. Ora, invece, si fa avanti la scaltrezza manageriale più che di Springsteen stesso. Intendiamo dire: se egli avesse inciso Born to run per una piccola etichetta, il pubblico americano si sarebbe rivolto altrove. Con questo però si escluda l'effimero successo. Ormai l'affare è fatto ed il cantautore è dotato di una pallida fantasia per rimaner nel cuore di tutti. Il suo gruppo è stato definito « il miglior gruppo di rock mai apparso». A parte l'assurdità di tale proposizione, pare che Springsteen e la sua 44 band abbiano un buon potere catalizzatore e basta: dai bootleg che già invadono il mercato si distingue un suono compatto, o meglio, che non rasenta la miseria. E cosl si deve ridimensionare, credere a un decimo dei plausi a lui rivolti. Per dover di cronaca diciamo che l'omonima Born to run è musichetta sguaiata di facile presa, Tenth Avenue Freeze out è l'ennesimo giro di blues mascherato e appena più in alto suonano Backstreets, Jungleland, Meeting across che River. I testi sono, in media con il precedente Springsteen, lo stimolo ideale del tipico pseudo intellettuale americano. Detto ciò, si aggiunga il nome di Springsteen al già folto seguito di musicanti emersi in questi ultimi anni. Mike Oldfield: Ommadawn (Vlrgin Records) Terzo album per Mike Oldfield, dopo « Tubular Bells » ed « Hergest Ridge », rock sinfonie ben costruite, carezzevoli e persuasive. Ommadawn riprende il rapporto oriente-occidente non nell'uso strettamente strumentale quanto nella voce che tutta l'ambientazione comporta: Oldfield disegna il << suo » oriente e lo fa in quanto lo sente creativo, spontaneo, nonostante le difficoltà linguistiche e di trasposizione, cioè reinventa e gioca su armonie dolci, su rime di carillon o voci di bambini, dando al tutto una spiritualità aerea, informale. Ommadawn, le prime sillabe gridano qualcosa in alto, ed è il suono del Tutto secondo il buddhismo, poi continue discese lievi, alla Oldfield appunto, dove la stesura è meno tecnicista, meno barocca delle precedenti, senz'altro più ansiosa ed immediata. Deluderà quanti si attendevano un'opera epica, maestosa, che venisse ad esempio da Hergest • Ridge dove il sogno era portato all'eccesso e l'artista si lasciava veramente andare senza trovarsi, mentre ora tutto è più acustico, misurato e lineare. Fa bene ad Oldfield, in quanto lo ha mondato di molte sovrastrutture, lo ha liberato dal pericolo dell'elettronica spicciola e che avesse tout court una funzione culturale. Mentre Oldfield senza enfasi mette in discussione certi linguaggi - in effetti fa ricorso anche lui alla costruzione « sinfonica » - e li semplifica assimilandoli lentamente, spogliandoli attraverso progressivi esperimenti elettroacustici. Coglie un bersaglio senz'altro: quello di non esprimersi solo in funzione della propria coscienza, sulla quale lavora con le forbici sino a minimizzarla, ma piuttosto senza il minimo feticismo, senza insomma divenire « interprete» di qualcosa. Ed in più Ommadawn si priva di ogni notazione fantascientifica, di ogni astrattismo pur venendo dall'unione di diverse sorgenti sonore e culturali, come ritmi scozzesi o gesti alla Nono o anche il tappeto percussionistico dei Jabula: (gruppo africano che lo accompagna) potrebbe risultarne un'operazione di musica « concreta » ma svolta all'inverso e soprattutto popolare. M. B. Archle Shepp, « Sea of Faces », Black Saint « Sea of Faces » è la folla di giovani che ha acclamato il sassofonista afro-americano Archie Shepp all'ultima edizione di Umbria Jazz. Il disco, registrato a Milano per una nuova etichetta pochissimi giorni dopo il concerto, è evidentemente la risposta di Shepp al momento magico che ha vissuto a Perugia. C'è la stessa atmosfera elettrizzante, la stessa tensione creativa, lo stesso gioco sottile con la tradizione jazz su un terreno inequivocabilmente moderno. Lo stesso Shepp, all'altezza dei tempi migliori, che ha esaltato l'impressionante folla di giovani in Umbria. E tutto l'album, con diverse atmosfere, testimonia dell'eccezionale periodo di Shepp e dei suoi parmers: i fedelissimi Beaver Harris (batt.) e Dave Burrell (piano) e i nuovi compagni Cameron Brown (basso) e Charles « Majeed » Greenly {tromb.), quest'ultimo poi con il particolare ruolo di alter-ego di Shepp,

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