Muzak - anno III - n.08 - dicembre 1975

un feeling tali da giustificare la assoluta mancanza di variazioni per tutta la durata del pezzo; e la sua elementarità è troppo scoperta per potervi indicare la sola direzione di ascolto del brano. La vera funzione che assolve è quella naturale, del ritmo come puro stimolo mentale e fisico: il movimento è tutto interno. Per questo non esiste una struttura assoluta, •sia armonica che melodica, ma tante piccole strutture parziali che si incontrano. E' il fatto musicale che genera se stesso, grazie al particolare atteggiamento strumentale con cui è condotto e che afferma il concetto jazzistico di improvvisazione anche se selezionata. Quindi basso, sax e piano elettrico hanno la stessa funzione ·che non è nè solo armonica nè solo melodica nè solo ritmica; escono dalla logica dei ruoli, delle formule dichiarandone una più vera: quella del fare musica. « We always solo, we never solo » dice Zawinul: « Siamo sempre in assolo, non siamo mai in assolo ». Gli strumentisti suonano c1oe contemporaneamente, ma non sommano discorsi singoli e autosufficienti verso il traboccamento della struttura come in certo free jazz; i loro sono brevissimi interventi reciproci che si incastrano l'uno con l'altro aggiungendo o togliendo qualcosa e il suono continua ad aggregarsi e poi scomporsi con lo stesso carattere di necessità; con quella dinamica per cui il vuoto ha la stessa importanza del pieno. Ogni intervento nasce dalla interpretazione elettrica delle « blue notes », gli intervalli tipici del blues e apre possibilità che l'altro musicista deve sviluppare ma non risolvere, come certo concetto di forma e l'esuberanza dell'interpretazione rock generalmente impongono. C'è una volontà di non risolvere, di non chiudere in un momento di massima realizzazione che non significa inconcludenza ma vitalità. Da questo atteggiamento emerge l'idea di musica come fatto continuo che esce dai limiti mistificanti della sua concezione in brani, musica come costante stato di interpretazione fisica e mentale insieme. E' così anche quando il suono si organizza per proporre in unisono il tema finale: gli strumenti si ricongiungono in un solo discorso ma il tema stesso composto di pause ed intervalli sottilissimi, frantuma, aggira sia il ritmo che la to· nalità fissa, rinuncia ai loro facili punti di appoggio creando ogni volta dal suo interno la necessità di se stesso. Colori diversi si incontrano per negare un'unica « versione dei fatti », una comoda direzione di ascolto. L'insieme della forza che il tema esprime ed il tocco quasi puntillistico con cui è eseguito, trasmette una grinta più « cattiva » proprio perché ambigua, calcolata. Se Whole Lotta Love è un pugno, Boogie Woogie Waltz è la scelta del graffio sottile, di una relazione più moderna tra energia utilizzata e risultato; e così la sua chiusura non è una chiusura ma un taglio che dichiara la propria presenza per motivi solo tecnici, di durata, non per l'idea tradizionale di forma e giustamente nella sua nota finale non riconferma la tonalità di tutto il resto del brano tenuta fissa per tredici minuti, ma la richiama attraverso il rapporto di attrazione che esiste tra dominante e tonica, il più stretto. Come dire: « Non è finita qui ». La scelta diventa momento espressivo e la formuletta non trova spazio. Per questo solo un taglio e una tensione armonica cosl calati dall'alto possono inter-• rompere una situazione che già vive insieme sullo strumento e nel tuo cervello. Il disco finisce, ma la musica ne è già fuori: è nella realtà del corpo elettrico Bruno Mariani 24 - Figlidiunritmo e diuntransistor Quando i W eather Report apparvero nel confuso panorama della musica americana del 1971 i giudizi furono esaltanti. Si intravedeva una strada, uno squarcio estremamente vivido e convincente di quella che poteva essere la nuova musica: una sintesi che raccogliesse le intuizioni più felici che il rock aveva saputo esprimere e, soprattutto, le indicazioni dell'estetica jazz, che in quel momento era ad una svolta decisiva. Del rock i W.R., cercarono di approfondire quel bisogno, rimasto latente, di edificarsi CO· me nuovo universo sonoro; e al jazz si rifecero le principali coordinate estetiche e linguistiche: visione del mondo in continuo mutamento, linguaggio liberatorio, creatività estemporanea o mediata dalla composizione. Cera già stato Mi/es Davis ad indicare questa strada, ma la sua voce oramai era quella di un gigante solitario, e nessuno poteva essere certo che le sue provocatorie « invenzioni » fossero riprese e sviluppate da altri. Furono i W eather Report a raccogliere questa di/ ficile eredità, rivelandone tutte le implicazioni. La svilupparono, anzi, ben al di là delle premesse iniziali, fino a dare l'impressione che questo collegamento con Davis fosse stato solo analogico e non sostanziale. Il solito affrettato giudizio dei critici, insomma, che di fronte al « nuovo » cercano punti di riferimento anche oltre il lecito, ingigantendo affinità e similitudini. Eppure, un « nodo » comune c'era, anche se forse andava letto « tra le righe», al di là dei dati formali. E non è a caso che sia W ayne Shorter sia Joe Zawinul, i due poli maggiori del gruppo, abbiano militato nel gruppo di Davis, il primo,

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