Muzak - anno III - n.07 - novembre 1975

Contrappunti ai fatti IlteoremadiPasolini Sui quotidiani, sui settimanali, in televisione e chissà ancora dove, la morte di Pasolini è stata già analizzata, pianta, interpretata, detta in tutti i suoi risvolti. Un uomo, un poeta, un regista, un coerente intellettuale. O magari avversario degnissimo, polemista paradossale, reazionario di fatto. Non è certo la morte, lo sappiamo, appianatrice, ma non ci sembra neanche che la morte di Pasolini, proprio ora che le sue risposte, nel bene o nel male, le ha già date, possa di nuovo servire a riaccendere le polemiche sulla televisione e la scuola dell'obbligo, l'aborto o la delinquenza di massa e senza classe che egli ha ultimamente teorizzato. Molti hanno ricordato che pochissimi giorni fa in un articolo sul Corriere, Pasolini negava una matrice di classe al delitto del Circeo, attribuendo la violenza alla perdita dei valori della società « consumistica », allo smarrimento di ogni possibile analisi delle classi in un generico « ambiente criminaloide di massa » di cui i giovani sarebbero la punta emergente. E molto si sono stupiti di questo parallelo fra l'analisi della violenza giovanile e le condizioni della morte dello scrittore. L'assassino: un giovane sottoproletario, tipico « protagonista » dei libri e dei film di Pasolini, tipico esponente del sottoproletariato romano. Il luogo squallido: fra le baracche e i grattacieli di quell'Ostia in cui si infrange tutto il bisogno di consumare vacanze della popolazione essenzialmente sottoproletaria di Roma. Un delitto, dunque, la cui sceneggiatura Pasolini non avrebbe potuto scrivere più degnamente. Persino il particolare dell'anello d'oro, ultima prova a carico del giovane assassino, sembra essere uscito dalla sua fantasia. Una dimostrazione in più di quale attenzione Pasolini mettesse nelle sue descrizioni d'ambiente romano. E di quale amore. Ma, appunto, negli ultimi tempi il primitivo amore per la Roma sottoproletaria di « Ragazzi di vita » o di « Accattone » si era trasformato in odio. Odio per i giovani, odio per un mondo che non gli corrispondeva più, per un sottoproletariato mutato « imbastardito » rispetto at'. l'ingenua apparenza che Pasolini ne aveva, con molta poesia e poca acutezza politica, colto. Un sottoproletariato che egli vedeva, giustamente, ormai impestato dalla amoralità della borghesia (l'immoralità è un'altra cosa) ma a cui proponeva soluzioni false e impossibili: la regressione, il ritorno a una mitica purezza che non esiste e non è mai esistita come dato storico. E cosl la violenza inumana, di cui il diciassettenne assassino è egli 9 stesso vittima, imposta dalla borghesia a chi non ha né valori, né coscienza, né ruoli, né corpo. La violenza, l'amoralità, la perdita di umanità e di « pietà » ( per usare un termine caro a Pasolini) non sono un portato oggettivo del « progresso », ma un dato segnato dalla classe che questo progresso gestisce in nome del profitto e dello sfruttamento. Le « scoperte >> e le « intuizioni» che molti (nuovi amici postumi, intellettuali gestori della crisi dell'ideologia borghese su cui fingono lacrime, vedove inconsolabili della cultura, prefiche dell'ultim'ora) attribuiscono a Pasolini sono scoperte e intuizioni solo per chi con la realtà di classe in Italia non ha mai voluto fare i conti. Non c'è nulla di eclatante nella considerazione che i senza-storia non hanno neanche una cultura propria ma mutuano, per imposizione, quella della classe dominante. E il cambiamento, la degenerazione presunta della « cultura » sottoproletaria non è nel passaggio dalla purezza al colonialismo consumistico, ma parallelo all'evoluzione della cultura borghese: dalla falsa morale deagli anni '50 ( funzionale alla ricostruzione capitalistica nell'Italia post-bellica) alla moralità di oggi. Quella amoralità che, gestita in prima persona dalla borghesia prepotente e fascista, significa Rosaria Lopez e l'orrore e l'ignominia di quel crimine; trasportata al sotto-proletariato significa Pasolini e lo sgomento di fronte alla morte violenta e, contemporaneamente, di fronte a un « assassino » doppiamente vittima: prima storicamente privato di tutto ( compreso il corpo), poi costretto a farsi strumento di una violenza, non casuale, che nasce altrove. Giaime Pintor Pier Paolo Pasolini

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