si (col corpo e non con la mente, fenomeno ormai dilagante e non certo singolare), a essere praticamente violentato da belle signore dalla fregola continua, perseguitato da attricette e nobildonne, assolutamente convinte che la necessaria continuazione della permanente è la chiavata e che, comprese nel prezzo, ci sono anche le prestazioni sessuali del coiffeur. I più tardi e sciocchi che si sarebbero ritenuti soddisfatti da piano sequenze erotiche e languidi giri di coscia, nella migliore tradizione del cinema nostrano, si sono sentiti frodati: Shampoo, metafora leggera sulla condizione umana, ha le cadenze soltanto della sapida commediola americana. Il dialogo, apparentemente leggero, con pochi improvvisi squarci di lucidità ( « Mi agito, mi muovo, ma ho sempre me stesso fra i piedi »), è la trama del quotidiano non dirsi niente. Il ritmo veloce è un susseguirsi angoscioShampoo so di gesti interrotti e amori incompiuti. L'ossatura spettacolare del film è una azione ripetuta: Il protagonista percorre Los Angeles (città-incubo soffocata di autostrade) su una motocicletta di grossa cilndrata, con il phon infilato nei pantaloni, come una pistola o un simbolo fallico, da una villa all'altra. E' in ogni villa facendo l'amore e lavando i capelli alle sue amanti-clienti. La sensazione dominante è di disagio, di vuoto ciclico. Qualcosa che sta fra il labirinto e il cul de sac. Verrebbe in mente certo agitarsi di particelle minuscole sotto l'inalterata immobilità della superficie. Uno spaccato di dinamiche senza speranza o forse, soprattutto, di speranze senza dinamica. L'America (ma anche il capitalismo, la borghesia, il consumismo, lo individualismo, il vuoto di ideali... ) nel « sancta sancotorum » dei suoi poveri ricchi, Bever1 y Hills, è un gigantesco coi55 tus interruptus, un groviglio di aspirazioni mai appagate, falsi obbiettivi e ancor più falsi amori ( il narcisismo delle signore che amano l'uomo che le fa belle, in quanto le fa belle, e dopo che le ha fatte belle: cioè, in definitiva, finiscono di amare sempre sé stesse ) . E alla base di tutto il commercio: denaro più potere, successo uguale appagamento, mantenute di lusso reificate e infelici che vendono fascino, come il parrucchiere vende il suo prezioso pedigree di stallone. Tutto questi si sente, scena dopo scena, se non si è fo. derati di troppo realismo, si sente come la maledizione del miracolo holliwoodiano nei libri di Nathanael West, soprattutto il fragilissimo e tristissimo Signorina Cuorin- /ranti, la drammatica incomunibilità e l'ancor più drammatica assenza di qualcosa da comunicare. Si sente tanto chiaramente che diventa inutile, pleonastico e quindi forzoso e un po' fumattaro il finale: lei, la mantenuta infelice, che rinuncia alla possibilità di un amore per non perdere la sicurezza di un capitale. Lui che la guarda dall'alto, schiacciato dal peso di una classe che vince sempre. Sia lui che lei, ricchi d'acquisto e non di diritto, sono costretti a vendersi, a continuare a vendersi, e poi sono schiacciati, risbattuti nel loro rango di inferiori, di strumenti di piacere, quando, volendosi amare, tentano una fuga dal mercato. Risulta evidente dalle precedenti considerazioni che non si tratta di un film eccezionale né per noi, né per gli esigentissimi topi da cineteca. In realtà Shampoo è uno dei tanti, intelligenti prodotti della borghesia americana su se stessa. L'autocoscienza di un mostro. Può essere utile, oltre che divertente, andarlo a vedere. L.R.
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