Muzak - anno III - n.07 - novembre 1975

Cari colleghi, (è cosl che si cominciano le lettere, no?), mi sembra che sia arrivato ( o forse già sta passando malgrado noi) il momento di riflettere sulla nostra esperienza: a due anni dalla nascita di Muzak, a chiusura di un'estate felice e critica oer la musica e la cultura giovanile. Un giornale, ne abbiamo discusso molto, non è davvero ( e sarebbe triste se lo fosse) il ricettacolo della propria astratta specializzazione, e non è nemmeno un circolo chiuso e geloso della propria « ideologia » complessiva. Ma non è nemmeno l'elenco sbiadito di fatti senza opinioni, di avvenimenti la cui neutralità è invece al servizio del potere. Fra queste due direttrici, con molte ambiguità e qualche caduta, abbiamo (me ne rendo e ve ne rendo atto) sempre cercato di trovare una sintesi. Sintesi fra la trasmissione di un sapere unilaterale ( e perciò inutile) e un conoscere senza comprensione e interpretazione (e perciò falso). Ma credo, senza andare a vedere nello specifico errori passati o presenti, che sia giunto il momento di farci chiarezza. E non solo dibattendo fra noi questa complessa questione, ma aprendo il dibattito a critici (anche da noi lontani) musicisti e, soprattutto, al pubblico. Vediamo in sintesi. E' chiaro che la critica, la critica dei fenomeni culturali in modo particolare, ha una sua specifica funzione, soprattutto quando essa è esercitata attravérso un mezzo di comunicazione di massa, un giornale a larga tiratura. Affermiamo dunque che /unzione della critica, cos! come di tutto il giornale, altro non è che dare ai lettori strumenti per comprendere il mondo, la storia, la società. Questo è un punto fondamentale, al di fuori del quale il rischio di "parlar per sé" è quanto mai attuale. Di qui del resto il cadere della cosiddetta dottrina delle priorità, in base alla quale esisterebbero cose più importanti o meno importanti, fenomeni di cui vale la pena e fenomeni di cui non vale la p_ena di occuparsi in modo critico. E' vero, altresì, che esistono fenomeni più semplici da interpretare e fenomeni• ~iù complessi. Così se diciamo non ci occupiamo Dibattito Perlacriticadellamusicapolitica La nuova dimensione dei fatti musicali impone una serie di revisioni e di ripensamenti da parte dei critici. Apriamo con una lettera di dibattito confidando nella più larga partecipazione, del pubblico innanzitutto, dei musicisti, dei critici anche da noi lontani. di Lucio Battisti diciamo solo che è vero, come è sempre vero, che anche Lucio Battisti rappresenta un fenomeno di questa realtà attuale, ma che la sua funzione e il suo rispecchiare è semplice e non mediato: è cioè l'ideologia della massificazione, della mercificazione, della canzonetta come semplice prodotto di consumo culturale. Ma diciamo anche, e lo abbiamo fatto, che non è un prodotto così innocuo e che nelle sue pieghe si nasconde la pianta velenosa dell'ideologia qualunquista, maschilista, e, in ultima analisi, reazionaria. Ma non è questo il punto. Volevo soltanto metter l'accento sul fatto che ogni prodotto "culturale" (uso il termine nella sua accezione più vasta possibile) ha una sua chiave di lettura e può servire, se si posseggono gli strumenti, a interpretare il mondo. E si pone allora una questione spinosa, su cui sono il primo ad autocriticarmi. La questione del metodo critico. Se cioè sia sufficiente una critica di tipo, diciamo così, "sociologico" oppure bisogna intervenire con criteri "estetici". Qua/è il rischio? Il rischio è che intervenendo sociologicamente, solo sociologicamente, non si colga più il molteplice che i fenomeni culturali rappresentano, si crei cioè un metodo critico buono per ogni cosa, una specie di passe-par-tout, anzi, di piede di porco, con cui scassinare, non sempre in modo lecito, ogni prodotto e fenomeno culturale. Ma, del resto, intervenendo solo esteticamente, non ri corre forse il rischio di cadere 44 nelle mai abbastanza esecrate "buone vibrazioni", nel "è bello quello che piace", "la musica non si ascolta con il cervello"? Qualcuno, di recente ( e a sproposito) parla di critica strutturale. Ma in realtà, lontana le mille miglia dallo strutturalismo, questo tipo di critica cade facilmente nel formalismo, analizza'ldo, con minore o maggiore sicurezza, gli elementi esclusivamente formali di una certa musica senza saper risalire al significato vero di questi elementi formali: all'idea musicale. Ma nessuno, mi pare, si è finora posto il problema serio dell'idea musicale, di ciò cioè che la musica esprime (e che, lo sapniamo, non è uguale, né paragonabile a quello che esprime la parola o la pittura). Nessuno tranne coloro che hanno riportato (in modo troppo meccanico) l'idea musicale ai suoi minimi (e riduttivi) termini di rispecchiamento sociale. Io sono fra questi ultimi, e sento dunque, più di altri, il salto che c'è fra l'idea e la realtà su cui questa idea nasce. Se infatti dico, come ho scritto proprio su Muzak, che i Rolling rappresentano « I' antimorale qualsiasi essa sia, I' antimito, il parafulmine dell'irrazionalità che ogni generazione esprime e che ha bisogno di chi, portandola a paradosso, la esorcizzi », dico una cosa vera, ma non sufficiente. Colgo cioè un elemento di rispecchiamento ma non ne colgo le mediazioni musicali, formali, cioè storicamente e musicalmente determinate. Mi autocritico perché so, e bene, quanto grosso sia il problema e quanto difficile sia la sua esatta definizione. E dunque, anche se sono convinto di fare critica in modo sostanzialmente corretto, trovo anche in me un errore, o almeno un difetto. Difetto che, variamente esplicitato, è presente un po' in tutti noi. Forse, e non è un vanto stupido ma un'analisi, meno che in altri persi appunto, senza problematicità o dietro il formalismo o dietro l'estetismo. Ma proprio perché più coscienti e credo più vicino a una qualche soluzione dobbiamo essere i più attenti, i più autocritici. E' questo il senso che vorrei dare a questa lettera come apertura di un dibattito profondo e spero proficuo. Ultime due notazioni. Credo che proprio Muzak (e chi meglio di noi persi in interminabili riunioni di redazione "allargate" lo sa?) debba porsi questo problema per il suo legame con un pubblico vasto e intelligente. E ponendosi in modo dialettico in confronto con questo pubblico, sapendone cogliere e sceglierne gli umori. Evitando cioè ogni forma di populismo demagogico (e logica commerciale conseguente) del tipo « questo va, di questo parlo », sia ogni errore, anche in buona fede, di dirigismo paternalistico del tipo « questa è la musica nostra perché te lo dico io ». E questo vuol dire anche farsi un'autocritica (ed è l'ultimo punto) sul linguaggio che usiamo: a volte esso dà l'inequivocabile impressione di una setta di mandarini certi della fon infallibilità, salvo a dare ,7u.ilche contentino di tipo appunto popolista. Credo che se dai nostri articoli, recensioni, saggi non traspare questa umiltà che bo detto, il problematicismo si esaurisce in lunghe e snervanti ( e inconcludenti, quindi) riunioni fra di noi continueremo a morderci la coda, a vagare ancora, nonostante i progressi compiuti da noi in sintonia con tutto il movimento, in concetti astratti, andare avanti a intuizioni più o meno intelligenti. E non vorrei nemmeno che, con la coscienza di far meglio di altri, finissimo per perdere quell'unica cosa che serve veramente a capire il mondo e che è la volontà di crescere, di conoscere, di confrontarsi e mettersi in discussione. Giaime Pintor

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