cantautori « engagès », e a quello che rischia di diventare « l'equivoco della politica », ovvero il timore dell'ideologia, e ci riferiamo indistintamente sia ai suoni che alle parole delle canzoni. Già a suo tempo alcuni cantautori affidarono tutta la potenzialità progressista della nuova canzone ai suoni, alle atmosfere, al messaggio specificamente musicale, lavorando in sincrono con « la grande illusione » del rock, che credette di poter eludere il confronto con la ideologia solamente perché riusciva ad aggregare persone che accumulavano una notevole carica energetica ( rivoluzionaria in potenza?). L'errore è stato quello di non domandarsi i modi e i tempi di questo coinvolgimento emotivo, di non renderlo cultura. Il misticismo, ad esempio, tipico di Claudio Rocchi, oppure la confusione sui massmedia, e infatti c'è voluto poco ad Alan Sorrenti per confondere, all'insegna del riflusso, le classifiche della hit-parade col consenso di massa. Questo per quanto riguarda quei pochi cantautori che hanno puntato sulla sonorità del rock più o meno d'avanguardia per esprimersi, e saremmo tentati di includere anche Battisti, tra i primi raffinati ricercatori di suoni nella nostra canzone, se non fosse che la sua volontà d'incidere sulle coscienze non è mai stata confusa con niente altro che con quello che effettivamente era: esaltare l'universo sub-culturale dei turbamenti adolescenziali per l'occasione confusi con i segni di una nuova era. Ma la gran parte dei cantautori, ovviamente del resto, si è maggiormente impegnata al livello delle « parole », costruite su moduli musicali per lo più finalizzati a colorire o a dare espressioni ad un certo discorso. La ricerca rimane, come era stato già per i cantautori del periodo aureo, quella di una canzone « intelligente », con l'accento spostato, a seconda dei casi, sul divertissement di gusto, la poesia o lo spessore dei contenuti; il tutto, però, riferito alla nuova sensibilità, in chiave politica o anche semplicemente sul piano del gusto, o ancora sull'attualità delle problematiche. In tutto questo la politica c'entra, e in effetti c'è entrata moltissimo, ma non sempre in modo chiaro e legittimo. E questo vale soprattutto per quei cantautori che potremmo definire «indipendenti», tanto per distinguerli da quelli che discendono direttamente dai canzonieri politici popolari (Della Mea, la Marini, Pietrangeli ecc... ) la cui ineccepibile militanza politica presta il fianco, caso mai, non a dubbi di legittimità ma ad un dibattito sui contenuti, per altro ricercato consapevolmente e quindi positivo. Gli « indipendenti », invece, sono coloro che hanno penAntpnello Vendltt1 21 sato bene di non accontentarsi del discorso politico tout court, con la sua immediatezza e la sua brutalità. Hanno preferito invece imboccare strade che pur presupponendo una coscienza politica (ma il problema resta quello di verificare fino a che punto ... ) si orientano su atteggiamenti di tipo lirico, oppure epico-populisti e cosl via dicendo, dimostrando soprattutto una diffusa attitudine alla metafora; strumento interessante ma certamente anche pericoloso e ambiguo. La metafora, consuetudine artistica per dire le cose senza dirle direttamente e soprattutto senza correre il rischio della rozzezza e del semplicismo, è per natura uno strumento delicato, dif: ficile, un'arma a doppio taglio nella quale la politica nei casi migliori diventa arte e nei peggiori rischia di imbrigliarsi fino a diventare poco più che un paravento o un lontano ricordo. Maestro e precursore di questo impegno « intellettuale » nella canzone è Francesco Guccini, vuoi per un uso saggio· e . al contempo spregiudicato della metafora, vuoi per un incisivo spirito critico, abilmente condito con l'humour avvinazzato e la grintosa intelligenza politica bolognesi. Guccini, la cui musica è servita da punto di riferimento a molti compositori alle prime armi, è diventato, coerentemente allo sviluppo del «movimento », riflesso e riflessione del riflusso politico, e probabilmente sarà il più puntuale, nelle prossime cose che farà, a contrappuntare i nuovi recenti fatti. E dopo di lui il diluvio. Cantautori spuntati come funghi da ogni parte ma soprattutto da Roma, città che in passato era stata piuttosto avara di talenti. I primi, e anche quelli che più di tutti hanno contribuito a confondere le acque, sono Venditti e De Gregori, citati insieme ancora oggi solamente per un'abitudine lenta a morire. Con loro la metafora ( sempre in riferimento all'ideologia), anzi l'elasticità espressiva della metafora, si è tesa quasi fino al limite; in Venditti con un populismo che ne ha fatto perdere il « riferimento a »; in De Gregori (checchè lui ne dica, vezzeggiato e coccolato come « enfant terrible » dalla RAI ) con una rarefazione che rasenta l'illegibilità. E poi ancora Rino Gaetano, Gianni Togni, Giorgio Lo Cascio e tanti altri ancora che sono attesi a prove ulteriori che confermino la strada tracciata. E poi ancora Ernesto Bassignano, Ivan Cattaneo, Roberta D'angelo, Silvia Drago e altri di cui stanno per uscire le rispettive « opere prime » discografiche. Diversa, invece, l'estrazione di Edoardo Bennatn, il cui grottesco-satirico napoletano degli inizi sembrava preludere a qualcosa di più graffiante e incisivo di quello che poi non è stato. Tutto comunque è in pieno fermento ed è lecito aspettarsi dai cantautori più o meno impegnati, il cui mosaico oltretutto va sempre più infittendosi, una sempre maggiore chiarificazione della musica politica le cui distanze dall 'occhio del tifone della « bagarre » politica vanno sempre più diminuendo. Roberto Rem:i
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