quando poi sarà in campagna / miei color ritornerà». Tipicamente, la soluzione di questa situazione è vista in molte canzoni attraverso il matrimonio ed il ritorno alla vita precedente. Altri lavori, in campagna, danno origine a forme di canto che so- • no riservate alle donne. Per esempio, nelle zone dove la raccolta delle olive occupa prevalentemente bracciantato femminile, si hanno forme di canto monostrofico (come per esempio la « montasolina ' e le forme affini diffuse in Sabina) cantate solo dalle donne. Ma queste forme non si differenziano molto da altre usate dagli uomini, per esempio per la mietitura, né come stile né come ontenuti: cosi tanto le raccoglitrici di olive che i mietitori potranno cantare la classica « è notte e notte e lo padron sospira / dice che è stata corta la giornata ». Il lavoro in casa non produce forme immediate di canto direttamente funzionale; ma certi lavori « donneschi » finiscono per legarsi ad alcuni generi di canzoni. Per esempio, c'è un rapporto diretto fra le lunghe ore passate nei lavori di cucito ed il fatto che le canzoni narrative, in genere lunghissime, si conservino meglio nella memoria femminile che in quella maschile, perché in situazioni del genere c'è tempo di cantarle tutte intere (come testimoniava Teresa Viarengo Ainerio, una donna di Asti il cui repertorio sterminato di antiche ballate è una fonte essenziale per lo studio della canzone popolare in Italia settentrionale). D'altra parte, molte di queste canzoni hanno implicato un discorso sul ruolo della donna nella società tradizionale: un ruolo di difesa dell'identità familiare, della stabilità delle istituzioni di difesa costruite dalle classi contadine e messe in crisi dall'avvento del capitalismo. Cosl la madre rappresenta la tradizione, l'autorità, la continuità in infinite canzoni: basti pensare a « Mamma mia dammi cento lire », col suo confii tto generazionale tra la figlia che vuole emigrare (spalleggiata dai fratelli) e la madre che la maledice, e col suo finale « le parole della mamma / sono state la verità / maledetto mio fratello / che m'ha dato la libertà ». Dove evidentemente si esprime il concetto (che ritroviamo pari pari in Marx) per cui il passaggio da « servo della gleba » a lavoratore libero è stato un passo in avanti di portata storica, ma è stato compiuto a prezzo di costi sociali immensi, pagati dalle classi subalterne in termini di disgregazione e rovina degli istituti tradizionali (primo fra tutti la famiglia) in cui trovano una forma di identificazione e di sicurezza. Un « lavoro» strettamente femminile è quello connesso alla cura dei bambini. Qui troviamo subito una forma espressiva strettamente femminile, che è un autentico canto ritmico di lavoro: la « ninna nanna ». Le ninne nanne popolari smentiscono le edulcorate immagini di estrazione religiosa della mamma col bambino; esprimono amore, ma esprimono soprattutto una riflessione sui oericoli a cui va incontro chi nasce in un mondo basato sulla oppressione: sappiamo tutti « O vèni sonne di la muntagnella / lu lupo si mangiau la pecurella ». Ma c'è anche l'impossibilità di un rapporto tra madre e figlio: « dormi dormi dormi bambino in culla, tua madre non c'è, è andata via a prendere l'acqua alla fontana di Sane'Anna, e la fontana non è mia ma è dei preti di Santa Lucia ». L'immagine paradossale dell'assenza della madre al momento della nascita ricorre con frequenza: « quando sono nato io mamma non c'era, sono rimasto solo e senza il seno »; « quando sei nata tu era di sera, tuo padre e tua madre non c'erano ». Il bambino nasce mentre la madre è via a lavorare, e tutta la retorica reazionaria della maternità va a farsi benedire. Cosl come alla nascita, poi, le donne sono preposte alla morte: il pianto rituale è un'altra forma espressiva specificamente femminile. Anche qui ci sono ampi elementi per un discorso sul ruolo e la condizione delle donne: la disperazione della vedova davanti al letto del marito morto è anche il terrore di trovarsi senza sostegno materiale e condannata ad una esistenza di vedovanza perenne: « Tu sei morto e io adesso che faccio? Mi straccio le trecce in faccia, mi getto sopra di te. Mi hai lasciato una famiglia scalza, nuda, affamata, che appena si sveglia vuole il pane e io non ne ho. Appena sono tornata a casa ho trovato due uscieri e ci fu il processo e mi sequestrarono la roba; avevo una casa e non ho più rifugio, senza pane e senza letto e la cagnetta continua ad abbaiare». Questa è «Scura maie», la canzone abruzzese che è in pratica una stilizzazione di un lamento funebre; e la canzone pugliese del « Povero Antonuccio » diffusa da Giovanna Marini ha un verso definitivo sulla sorte della fidanzata che perde il marito prima delle nozze: « la unica pompa mia la sepoltura ». Chi voglia parlare di che cosa ha voluto dire essere donna nella società patriarcale non ha bisogno di cercarsi « canzoni di protesta » e magari di inventarsele. Insomma, di canzoni sulla condizione delle donne ne esistono; ma si tratta per lo più di canzoni in cui questo tema è implicito, non affrontato in quanto tale, ma nei suoi riflessi in situazioni specifiche, legati ai ruoli 16 che le donne svolgono. Ma non ne mancano di esplicite, legate soprattutto al matrimonio. Certe canzoni americane sono assai chiare nel confronto fra la donna sposata e la ragazza nubile, tutto a favore di quest'ultima, che non deve badare alla casa e ai bambini e non deve sopportare il marito, può spendere e divertirsi; ma un canto rituale lombardo di nozze è altrettanto chiaro, ed il fatto che lo si canti ai matrimoni è in sé significativo: « a casa mia non facevo niente, stavo in bottega a servire la gente; facevo calzette, fa. cevo l'amore coi bei giovanetti». Scrive Roberto Lcydi che riporta questa canzone nel suo « I canti popolari italiani»: « Lo scopo del canto era quello di esorcizzare, con la sua manifestazione pubblica e ritualizzata, il contrasto tradizionale tra suocera e nuora », cioè in pratica di sottomettere quest'ultima alla autorità tradizionale della nuova famiglia. E d'altronde su questo « passaggio » di autorità è molto chiara una canzone americana: « E' dura la sorte delle donne, sempre controllate, sempre confinate; comandate dai genitori finché si sposano, poi schiave al marito per tutta la vita ». Una variante di questo tema è quella del matrimonio forzato, e degli orrori sessuali del rapporto tradizionale: « Appena entrata in camerella / lei si mise nel letto e piangendo / dice oibella è giunto il momento / di soffrire quei tristi dolor », dice la versione cantata dalla ex mondina Adelaide Bona di quella « Le carrozze son già preparate » di cui forse molti conoscono la versione zuccherata di Gigliola Cinguetti. E una sottovariantc del matrimonio forzato, sorte di molte ragazze, è la monacazione forzata, di cui racconta la canzone della « Monachella », figlia di un gran signore che si rifugia in convento perché « l'ha tradita il suo primo amor» che le ritorna davanti sotto spoglie demoniache. Naturalmente, c'è anche il contrario, e cioè una capacità delle canzoni popolari di trattare il sesso in modo diverso, meno pauroso, della cultura borghese. « Te vojo dà 'na botta a lo zinale / te vojo fà gridà mamma me dòle / mamma me dòle e non m'ha fatto male » cantava un gruppo di pellegrini al Santuario di Vallepietra questa estate, senza per questo sentirsi di violare la sacralità del luogo e la devozione con cui erano venuti. Il collegamento donna-fertilità tipico della società contadina è ben presente in molte canzoni narrative, specialmente nella tradizione inglese, che sono assai franche cd esplicite sui temi sessuali;
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