Muzak - anno III - n.06 - ottobre 1975

Lucio Dalla ha percorso un lungo e complesso cammino prima di giungere alla maturità artistica e culturale di oggi. Da un remoto (e bellissimo) primo discc~ « Lei » (un rhythm and blues italiano, addirittura strabiliante per l'epoca) alle opere più recenti c'è quindi continuità - la ricerca sofferta e originale dei moduli musicali non esausti, la rottura della ' melodia ' tradizionale, testi mai banali - ma c'è anche la rottura rappresentata dal salto qualitativo che ha consentito i due più recenti 33 giri, « Il giorno aveva cinque teste » e « Anidride solforosa ». Si tratta dei risultati di un lavoro fatto in comune con uno tra i maggiori poeti italiani contemporanei, il bolognese Roberto Roversi, che ha scritto i testi di una ventina di canzoni, due raccolte di poesie-racconto, liriche civili e politiche, intelligenti e dolci anche nell'invettiva e nella rabbia. A queste poesie Dalla ha datd le sue musiche o, forse, ha costruito le sue musiche in sintonia con la composizione dei versi; il risultato ci sembra eccezionale come coe;enza e organicità di sintesi poetico-musicale, superiore alle precedenti esperienze di collaborazione tra poeti e musicisti: a quelle francesi di alcuni ( e molti) anni fa, ad alcuni tentativi dei Cantacronache torinesi, a un vecchio disco di Silverio Pisu. La ragione consiste nel fatto che in tutte queste esperienze, il lavoro consisteva, in sostanza, nel musicare buoni testi o suggestive poesie con un procedimento che isolava drasticamente le due fasi di creazione artistica (e, in molti casi, nell'assoluta indipendenza tra di esse: poesie messe in musica, magari abilmente, a 50 anni di distanza dalla loro composizione). In questo caso, invece, l'ambizione è più alta e, come dire, più corretta: Roberto Roversi scrive poesie perché diventino canzoCanzonpi olitiche Voce,elotte Canta la disumanità strozzando la voce in urli alienati. Fra le brutte poesie canticchiate della musica leggera Lucio Dalla è quasi un miracolo. ni e tenendo conto dei connotati e della specificità del genere; Dalla compone musiche per testi scritti da un poeta e che hanno da essere comunicati a un pubblico che vuole ascoltare musica; e, in più, Dalla sa di dover cantare. canzoni che sono poesie, non recitare poesie canticchiandole. Eppure, in questi dischi tutto funziona a meraviglia e più di quanto era legittimo sperare; Lucio Dalla, infatti, non si limita a cantare buoni testi su buona muso sica, realizzando pienamente, quindi, quanto i due generi artistici possono dare; ci aggiunge di interamente suo un terzo « genere »: il canto, trasformato da semplice mezzo di comunicazione di parole (magari belle) su un impianto musicale (magari bello) in sostanza creativa, dotata di una sua autonomia e di una sua specificità. E allora, in canzoni con testi cosl « importanti » da rischiare di prevaricare su tutto il resto, succede che - inaspettatamente - la voce non ne risulta mortificata ma, al contrario, trova la via per esaltare tutta la propria forza espressiva, in una gamma ricchissima di accenti e di sfumature, di toni e di suoni fino a trasformarsi in un organo vivo e sensibilissimo. La voce non si limita, quindi, a ' dire ' parole di indignazione e di denuncia ma diventa essa stessa funzione espressiva che ' si indigna e denuncia'. Vogliamo qui ricordare una canzone il cui testo è costituito semplicemente da un elenco di titoli azionari: la sintassi, la logica, la retorica sono, in tal caso, superflue; non è necessario comporre una frase (o un verso) che dica, secondo le tradizionali regole sintattiche, logiche e retoriche: « i titoli azionari, strumenti del capitale finanziario, sono una delle manifestazioni del sistema borghese; sistema che degrada i rapporti sociali »; quel nudo (e monotono e ossessivo) elenco dice già tutto questo. E, in 'Pezzo zero', Dalla conduce fino alle estreme conseguenze questa operazione rinunciando all'uso di parole dal senso compiuto; canta suoni, rumori, versi; scompone e diaggrega le parole fino a distruggerne il significato per proporre, infine, il non-senso, consapevole com'è della sua pertinenza e della sua pregnanza. Se le parole devono dire la disumanità e l'alienazione dei rapporti, perché non dirlo anche con suoi disumanizzati ( incapaci di comunicare secondo i tradizionali codici linguistici) e alienati ( strappati cioè al loro significato consueto)? E' un'operazione non originale nella nostra cultura (e addirittura ricordante nella poesia) ma decisamente inedita nel campo della musica leggere e, forse, in grado di produrre qui risultati più interessanti che altrove. Simone Dessì

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