Muzak - anno III - n.06 - ottobre 1975

rivolga il tuo piacere / se pianti ghiaccio raccoglierai vento. Spazza via la rugiada. (da Franklin's Tower, Roll away the Dew). Frasi di Hunter, paroliere dei Dead, è la nuova esperienza che Garcia ha fatto tradurre. Lontano ormai dal Mahariji, ha ritrovato la forza che gli apparteneva in passato, e almeno per ora la musica tende al punto giusto. Con Mickey Hard alle percussioni dopo l'esperimento e la soluzione, con Garcia infatuato dalle buone credenze del medio oriente ed acuto come non lo era da anni, Blues for Allah si dimostra una delle opere più interessanti del momento. Si presti orecchio a Crazy Fingers o a Stronger than Dirt or Milkin' the Turkey, o allo spazio personale di Phil Lesh, King Solomon's Marbles. Guardiamo avanti e non indietro, per favore, e forse Grateful Dead riuscirà ancora ad esser grande. Popol Vuh: Das Momelled Salomos (United Artists) Cambio di casa discografica per i tedeschi Popol Vuh: quasi la Uni ted tedesca volesse confermare il proprio antico predominio nel settore del rock d'avanguardia, dalle sue file escono questi nastri, più ricchi e belli dei precedenti, se possibile, usciti per la gloriosa OHR. Nulla comunque è mutato, anzi assistiamo ad un ritorno alla spiritualità di « Hosianna Mantra» in grande forza ed in fondo gli anni che separano le due incisioni sembrano non essere passati sulle spalle di Fricke e soci, sia in bene che in male, lasciato il discorso a mezz'aria, non completata la ricerca elettronica di « In Der Garten Pharaos » ed aperta una strada che potrebbe portare al soliloquio ostinato del gruppo, anziché alla totalità spaziale. C'è da dire che Popol Vuh ormai persegue un suono ritmico privo di qualsiasi ampollosità, di sinfonismi, di eroismi, che la tensione verso l'Assoluto è sempre presente, che la ricerca non si è stemperata nel linguaggio divenuto più semplice, fresco e popolare, ma « Das Moelied Salomos » dimostra il limite di Fricke e poco altro: musica orientale trapiantata in Germania, unita a qualcosa di più toccabile che Daniel Fichelscher costruisce con le sue percussioni. Visti dal vivo i Popol Vuh deludono, non riuscendo ad esprimersi chiaramente, chiusi nel ghetto pianistico di Florian, gli albums sono invece miracoli di stile e di compromessi. Stupisce non poco quindi una prima parte fatta di sogno e di irrealtà, completamente acustica ormai e qui sta la reale forza della formazione, nelle elaborazioni acustiche dolcissime e nella grazia vocale di Dyong Yun, ormai entrata stabilmente nell'organico, stupisce ancora la colorazione californiana della seconda, dove il Popol Vuh appare una propaggine lontana e fertilissima dei Grateful Dead di « Anthem Of The Sun » ed il doppio « Live » prima ancora di essere una espressione propria. La parabola discende lievemente verso cristalli e specchi di suoni, verso acidi lunghissimi ed irrisolti, verso ansie che non si reprimono attraverso l'OM della natura e dell'amore ma che piuttosto nascondono paure e frustrazioni, e la loro denuncia. L'album, l'amore di nuovo, il Mantra ed il canto del corpo e del terzo orecchio, magia e disegno elettroacustico: Popol Vuh perde qualcosa di se stesso, ma senza troppa confusione va raccogliendo idee per nuove, probabili, esplosioni. M. B. Bob Dylan: The Basement Tapes (2 LP, Columbia) Nel 1966 Dylan ha un grave incidente, in motocicletta. Dirà di aver visto la morte. Si ritira dalla scena attiva, per anni, e non ritornerà agli studi della Columbia che alla fine del '67. Passa la convalescenza in completo riposo; nella primavera del '67 si ritrova al Big Pink, suo casale vicino a Woodstock per alcune sessions con la Band, che già un anno prima lo accompagnò nella tournée europea. Ne escono nastri che Bob Dylan manda alla casa editrice e distribuisce fra amici. Ci saranno nuovi spartiti, ufficiali, ed una serie di trasposizioni clandestine su 43 bootleg, di cui Great White Wonder venderà più di duecentomila copie, e Troubled Troubador poco meno. Le session si svolgono con tranquillità, Dylan ha voluto sospendere ogni impegno fino all'ottobre, suona perché le nuove canzoni non vadano perse. Gli arrangiamenti della Band lo avevano soddisfatto, e queste tracce si prestano particolarmente ad essere arrangiate. Molti gruppi oltre la Band le rifaranno, e Bob Dylan troverà in Mighty Queen di Manfred Mann e Open the Door, Homer di Thunderclap Newman le « migliori versioni di un mio pezzo ». C'è da ricordarne almeno un'altra, la You ain't goin' Nowhere, resa con maestrla dai Byrds di Sweetheart of the Rodeo. Ma i nastri non lo soddisfano appieno e decide di non pubblicarli. Tanto, la Columbia sa che prima o poi serviranno. Bob Dylan ha superato in quegli anni l'immagine di folk singer eletto prima da se stesso e poi dagli altri, che compone per la sua voce e la sua chitarra e basta. Dopo aver udito della Mr. Tambourine Man ripresa dai Byrds (« Ora che il rock ha assorbito-il folk, cosa mi rimane da fare », disse), ha preferito suonare con la chitarra elettrica in gruppo. E The Basement Tapes, con le seguenti incisioni per John Wesley Harding, chiudono il periodo felice del Dylan infervorato di country rock. Nel '75, quando Bob Dylan pare aver ritrovato un po' del suo discreto genio, la Columbia pubblica ufficialmente quei nastri, con l'approvazione dell'artista stesso. Ma come al solito fa confusione, muta l'ordine logico che Dylan vuol dare ai pezzi, omette la bella l'm not there ed altre quattro tracce, include una sconosciuta disastrosa Goin' to Acapulco. Con la revisione dei missaggi, poi, un briciolo di spontaneità va persa. Dalla Columbia non si poteva attendere di meglio. Too much of Nothing, in particolare, spicca sulle altre, ed è diversa da quella trafugata. Comunque, la raccolta dei Basement Tapes è essenziale alla comprensione del Bob Dylan degli « anni duri », se non proprio indispensabile. M.R. George Adams Jazz a confronto (HORO) George Adams è l'ultimo, in ordine cronologico, di una strepitosa serie di talenti musicali portati alla luce da Charlie Mingus. E proprio con quest'ultimo, Adams è venuto più volte in Italia, suonando ai festivals di Bergamo e di Pescara, oltre che alle ultime due edizioni di Umbria Jazz ('7 4 e '7 5 ), ottenendo dovunque anche un discreto successo personale. E così, questo giovane sassofonista venuto fuori dal nulla, nel giro di un anno si è imposto, con la sua garbata aggressività all'attenzione del pubblico e della critica europei, come è noto molto più pronti degli equivalenti americani a tributare il successo agli esponenti validi del jazz afro-americano. Successo meritato, comunque, che gli è valso il suo primo disco come leader, realizzato per la collana italiana « Jazz a confronto». I musicisti sono praticamente quelli del ,gruppo di Mingus: Dannie Richmond alla batteria e Don Pullen al piano, con l'ec, cezione, ovviamente, del leader sostituito da David Williams. Tra i brani contenuti nell'album vanno segnalati: «Song of Adam» in cui G. Adams suona contemporaneamente (!) il sax e il pianoforte; e « Payday blues» che occupa quasi interamente una facciata del disco. In questo splendido blues Adams canta oltre che suonare, e si tratta •di quello stesso blues che nei concerti di Mingus veniva eseguito come bis veramente esaltante e definitivamente, sempre se ce ne fosse stato bisogno, convincente. G. C. Jefferson Starshlp: Red Octopus (Grunt) E' strano come queste ennesime parole dei J efferson siano spese solo grazie all'aiuto di Marty Balin e come questo aiuto giunga silenziosamente, riportando indietro anziché avanzare il discorso stesso della formazione, ormai gigiona e furba... le pillole ingurgitate in passato e soprattutto l'ambiente sempre più confuso e poco creativo della California retSegue a pag. 47

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