Concerti E'morto ilpop vivailjazz Pescara, Perugia, Alassio, Viareggio, Napoli. Decine di appuntamenti musicali dell'estate appena trascorsa che hanno dato l'impressione di un fenomeno nuovo e inusuale per noi. Chi giurava sull'immortalità del pop, e chi sperava nel permanere in grazia aris tocratica del jazz è stato smentito clamorosamente e per fortuna. Ora questi piangono e, come tutti i reazionari, sono tanto miopi da non capire le ragioni nuove e confortanti di questa adesione massiccia al jazz, e anzi non se lo chiedono nemmeno. Vediamo: il festival jazz di Pescara subisce lo stesso trattamento dei concerti pop. Scontri, tentativi di sfondamento, il solito discorso fra l'ambiguità del « riprendiamoci la musica » e il bisogno reale di « autogestione della cultura ». Umbria-jazz va sull'orlo del collasso per non aver previsto un pubblico quantitativamente molto più numeroso e, dunque, qualitativamente diverso. Alassio: gli organizzatori rendendo il festival gratuito dimostrando d'aver capito da che parte tira il vento. Viareggio e Napoli, pur nella diversità, come simboli dell'interesse tutto nuovo (e tendenzialmente positivo) che le organizzazioni politiche della sinistra di classe hanno maturato individuando una strada per far della musica un concreto momento di lotta. E' il jazz che s'imbastardisce, come qualcuno da anni cassandramente protesta? O il pubblico giovanile che si è raffinato, come dice chi non vuol proprio capire nulla? O il pop che è morto, lasciando orfani decine e decine di migliaia di giovani? In parte. In realtà il processo intervenuto è, probabilmente, sommatoria di più fattori concorrenti. Da una parte, è indubbio, il pop boccheggia incapace di rinnovarsi, ma in15 capace anche di trovare la strada vecchia percorsa con tanta fortuna per quasi dieci anni, la strada della «musica di movimento». Il pop non è, dunque, tanto stilisticamente morto, quanto è politicamente morto, o almeno agonizzante. Per una fatalità che coglie anche loro alla sprovvista, comincia a essere vero quello che i critici reazionari e qualunquisti vanno da tanto cianciando, non essendoci rapporto fra musica e politica. Cioè questo rapporto non c'è più, o rischia di non esserci più nemmeno fra molto tempo. La storia recente dei concerti pop ne è prOV!\più che decisiva. Nati come momenti per stare insieme con una musica in cui riconoscersi all'indomani del '68, a poco a poco, per inveç:chiamento ma anche per accumulo di frustrazioni (una festa non fa socialismo, e non fa nemmeno cadere tutte le carriere che nel quotidiano ci dividono), i giovani sentono il bisogno 'df riproporre la carica alternativa del pop nella critica (violenta) alla gestione di questo fenomeno: nasC!e cosl un movimento di contestazione che, anche. se egemonizzato per un po' da qualche gruppetto radical-freak, è in realtà spontaneo o, comunque, risponde a esigenze confuse ma reali: continuare a illudersi che esista veramente la «nostra cultura ». Illusione tanto più sbagliata, quanto più nel movimento « pop » cominciano a confluire elementi non più studenteschi e di estrazione piccolo-borghese, ma figli di operai, sottoproletariato, apprendisti, disoccupati giovani, studenti di istituti tecnici. Non siamo in America e, per fortuna, l'egemonia su una ribellione di sinistra non può essere lasciata ad un piccolo gruppo radical-progressista. E dunque scoppia una vera e propria guerra dei concerti, che piano piano, si trasforma in una critica oggettiva, violenta e giusta alla organizzazione della cultura. Di qui il primo elemento: il pop in sé, come musica (o come si dice: « socializzazione ») non è più in grado di soddisfare i bisogni del pubblico nuovo, ma neanche del pubblico vecchio, la cui esigenza di rappòrti più veri si afferma e trova sbocchi anche in altre situazioni. Si apre, a questo punto, il periodo, certo ancora non chiuso, delle « feste », momenti cioè in cui il dato culturale non è più fornito da una o un'altra musica, ma dalla voglia di creare, nel momento stesso in cui ci si trova insieme, germi di nuova cultura. Una cultura intesa, è chiaro, nel senso più vasto del termine, in senso, come si dice, antropologico: è cioè cultura il rapporto che ognuno stabilisce con gli altri, i mezzi e i metodi di questa socializzazione, la capacità creativa del singolo, e si può essere creativi anche facendo l'amore o parlando con un compagno. Le feste, con tutte le ambiguità che le hanno caratterizzate finora, svelano questa nostra tendenza di superamento del ghetto, di volontà di nuova comunicazione. Il dato « artistico », dunque, è in secondo piano, non tanto perché basta stare insieme (siamo ancora lontani dalla libera esplicazione di autonoma creatività), ma ..
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