Entro, agosro '75, in una pizzeria la cui insegna dice: Dancing, Pi cina, Pizzeria, Polli nostrani. Trattandosi di uno sperduto paesino di mini-villeggiatura la parola Dancing mi fa sorridere. Ma ali' entrata l'aspetto della questione mi si fa chiaro. E' vero: c'è un juke-box urlacchiante e villeggianti che intrecciano di rutto. Dallo shae al twist, dal rock'n'roll alla quadriglia, dal liscio alle danze tirolesi. E' frenetico. Mangio la mia pizza mentre davanti mi si offre questo spettacolo. Nessuno (a parte una coppia che dà prova di un discreto rock'n'roll molto tradizionale) pare muoversi secondo musica. Sembrano prestare più attenzione al « passo » che non al « tempo ». E', chiaramente, un modo per liberarsi un po', un divertimento, certo. Ma c'è anche una dose grossa di esibizionismo e tanta emulazione. Libertà? Poca, molto poca. Ma cos'era il ballo ai tempi nostri? Quando i Beatles avevano appena fatta la loro apparizione in Italia, c'erano le feste. Il nome pomposo era dato a riunioni di 20-30 persone, per lo più compagni di scuola. Inizio alle 5, 5 e mezzo, fine inderogabile 8 e mezzo (poi a casa, mai dopo le nove!). Festicciole senza pretese. Senza alcool, sbarbato fino ali' arrossimento per togliere pochi e biondi peli sedicenni, i vestiti giacca-pantaloni (i raffinati anche il gilet). Le donne (così le chiamavamo) in vestitini di pessimo gusto, comprati apposta per le feste del sabato pomeriggio e il santo natale. Si ballava. Ma era un rito strano, che ci corrispondeva molco poco e soprat• tutto molto poco significava come libertà del corpo. Ballare era in realtà un modo di far la corte alla ragazza che ti piaceva ma che filava con il tuo migliore amico, o, nei più sensibili, non lasciare a fare tappezzeria la bruttina sempre sola o seduta, o magari far contenta la bruttisMitieriti Ilcorpodaballo .Ballare non è solo muoversi a tempo: è riscoprire il proprio corpo, smetterla di credersi tutto cervello., femministizzarsi e, dunque, far bene l'amore. sima prima della classe per farti passare il compico il lunedì successivo. Impomatati, leccati e vestiti come manichini, non potevamo certo dar spazio alla creatività che, pure, da qualche parte nascondevamo in noi. Ed esplose. Qualche anno più tardi. Passati i Beatles, i Giganti, i Dik-Dik e Catherine Spaak ( « tous le garçons et !es filles de mon age » era un classi del ballo da seduzione). Esplose e, una volta di più si chiamo con num. '68. Il corpo, gradualmente, si liberava con la mente. Via Rosmini e Gioberti (via anche la giacca e cravatta), via Prati e Aleardi (e via la sfumatura alta), via tutte le date della guerra dei trent'anni (e via questo muoversi da orsi alla fiera). Riscoprimmo il tempo quasi per caso. Per un ritmo che inavvertitamente ormai tutti hanno nell 'orecchio: ce n'est q'un debut, continuons le combat. E prendemmo a muovere il corpo con altra libertà e, tuttO· sommato, cominciavamo a essere più belli, effeminati 77 come con disprezzo scrivevano il Tempo o la Notte. Femministizzati, potremmo dire oggi. Se essere femmina vuol dire aver un rapporco nuovo anche con il proprio corpo, non per rinchiuderlo (questo semmai accadeva in Inghilterra, non da noi) nelle schiavitù dei cosmetici e dell'ultima moda, ma per sapere di possederlo, di poterlo finalmente usare non solo per fare sport competitivi, viriloidi e fascisti, quanto, per esempio, per far l'amore o, perché no? ballare. E se oggi le manifestazioni sono stanche e tradizionali qualcuno ancora ricorda quando muoversi insieme era un mo• do di danzare, di costruire un brandello di felicità, di comunità, di contatto (cordoni, compagni, cordoni. .. ma a quei tempi non era il servizio d'ordine a imporci i cordoni, li facevamo da soli, felici di toccarci, di trasmetterci energia gioia e lotta anche attraverso le mani, la corsetta, il passo cadenzato). Ma come al solico non portammo fino in fondo la nostra liberazione. E non imparammo a far bene l'amore (eravamo ancora convinti, noi maschietti, che bisognasse solo infilare un coso in un buco), non imparammo a ballare liberando il corpo a suon di musica. Perché questo, fino a prova contraria e hully-gully permettendo, è il ballo. Un po', certo, lo spinello. L'hacisc ci liberava un un po'. Certo più dell'alcool che ci intorpidiva il cervello e rendeva il nostro ballo simile a una carica di elefanti impazzi ti. I concerti fecero qualcosa per noi: molto poco. Muoversi liberamente lasciando che il corpo esprimesse se stesso e insieme tut· ca la nostra creatività era considerato (e lo è tutt'ora) sconveniente. La gente, anche i compagni, ti guardano male, ti senti stupidamente esibizionista, cerchi di far scalpore, almeno, ristabilisci i « passi», perdi i « tempi ». E siamo daccapo. E cosl il ballo ridiventa questa cosa strana, relegato nei dancing-piscina-pizza-polli o nelle balere di periferia mentre il fantomatico « proleta• riaco giovanile » non riesce a riappropriarsene, a farne una espressione sua, un linguaggio, una comunicazione in più, una forma d'arte alla portata di chiunque abbia un corpo. E, mancandoci questo tipo di ballo, perdiamo l'orecchio, la capacità di sentire veramente la musica. E allora, tuttosommato, che la sentiamo a fare? Se i neri ballano immensamente meglio di noi non è perché son selvaggi: ma perché la loro condizione d'op• pressi e discriminati li obbliga a tenere in vita forme di comunicazione e d'arte che noi ormai abbiamo smarrito. Ma, in fondo, non siamo anche noi degli oppressi a cui nulla è consentito nell'ambito dell'accademia cultura ufficiale? Non siamo, noi proletariato giovanile, i negri d'Italia? Giacomo Marano
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==