Miti&riti C'e,un • signore seduto sulcesso coibaffi Giaime Pinta, Sulla copertina dei dischi in atteggiamenti indecorosi, suonava con rumori sgradevoli e parolacce: Zappa ci dava la sensazione di spezzare la normalità. Un buffo signore seduto su un gabinetto, dai ridicoli baffi e con un nome anche esso facile alle battute. Questo è più o meno il primo rapporto che ho avuto con Zappa, che avemmo tutti. L'amore quasi fisico per la sua musica è cosa che venno dopo, quando tentammo, ormai stanchi dell'agitarci rivoluzionario senza più capo né coda, di costruirgli un vestito rosso che non gli stava per niente bene. E che tuttosommato non stava bene neanche a noi. Eravamo in pieno scoppio sessantottardo e Zappa su un cesso ci dava la sottile emozione del bambino che dice cacca davanti allo zio prete: la volgarità che tenta di farsi valore positivo, affermazione, costruzione dell'identità negata da una famiglia patriarcale e liberal-repressiva. La stessa emozione dello spinello fatto in fretta, svuotando le sigarette (mica c'erano le Rizla blu, allora) e riempiendole con meticolosa attenzione in partenza per « paradisi artificfiali » molto più blandi di quello che già avevamo imparato a raggiungere con il Frascati. Era un'ingenuità anche quella, lontana e di molto dall'ideologia che avrebbe preso, di li a poco, il sopravvento: l'hashish come liberazione, nuova comunicazione e via psichedelizzando. C'era Dylan e noi lo caricavamo di significati politici che ci sembravano evidenti, visti con gli occhiali gialli della nostra esperienza di liceali luddisti. C'erano i Pink Floyd, e noi giù a dire idiozie sulla liberazione e sulla comunicazione extraverbale perché le parole non le sapevamo più usare, dopo aver gridato per un anno incero slogan che erano diventaci vuoti: spazi autogesti ti, agibilità politica, momento assembleare, settore terziario. E c'era Zappa, proprio lui con il suo usare le parole stravolgendole, quel discorFrank Zappa 39 so incessante e ridicolo che ridava forza alle frasi, ridava un senso al linguaggio. Zappa è l'esempio più immediato di quanto la controcultura sia un valore solo se e laddove è rivissuta è riempita di contenuti nuovi, di nuove esperienze, di nuove chiavi di lettura. Uscimmo dal '68 con un'insoddisfazione di fondo. Avevamo creato e vissuto il massimo momento di contraddizione della nostra società, l'avevamo gestito, non avevamo permesso che fosse riassorbito come crisi di crescenza, come piccola ribellione di chi chiede di andare a spartire il potere dei padri. C'era riuscito quasi tutto, eravamo ubbriacati e ancor più lo fummo quando credemmo (ingenui) di aver trainato la ribellione operaia del '69. Eravamo in realtà stati solo i primi, perché per noi era più facile: combattevamo per liberarci dalle catene psicologiche, non rischiavamo, tuttosommato, granché. Ma non fummo capaci di spingere fino in fondo l'acceleratore, liberi, certo, lo eravamo di più: ma dalle imposizioni altrui, non da quelle della nostra storica vecchiaia morale e culturale. Avevamo eliminato forse rapporti di tipo vecchio, rapporti in cui la coppia era una sorta di due cuori e una capanna? Avevamo forse superato le mille inibizioni che avevano costretto i nostri rapporti interpersonali dentro la stretta corazza della paura degli altri? Avevamo liberato la voglia di amare? Eravamo stati capaci di analizzare con freddezza la nostra sessualità? E, infine, avevamo prodotto, in qualche modo, un modo nuovo di far cultura? La risposta negativa che avvertiamo, in modo chiaro ed oscuro, a queste domande ci imponeva di trovare alibi. Li trovammo in quella che va sotto il nome di controcultura, e anche nel pop e anche in Zappa. Era volp:are, ➔
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==