in it for rhe Money, ma delicatamente aizzatore, uno che insomma non si fa ridere alle spalle ma quasi... E se OneSize Fits Ali passerà alla storia, sarà come punto di una situazione che ormai va avanti per inerzia, il sogno malato di un ex freak che vuole far da spalla a Lou Rced e David Bowie. Sincerità non ne manca ed è appunto la seguente che fa apparire tutto cosl palese, come sempre ha fatto il caro Frank e glielo dobbiamo riconoscere. Lo ricordiamo con il sassofonista da balera lo scorso anno e con i lascivi Fio & Eddie, ma non sono i periodi migliori vero? Una caglia che va bene per tutti è propria la chiave che Frank cerca da due anni a questa parte, ma non vor~ rei che l'imagine del segno fosse deleteria. Allora lo proferivamo nei primi tempi del Fillmore con il sigaro in bocca sedersi sulla poltrona e sparire dietro le quinte, poi riuscire ad accordare lo strumento, e cosl in fila tutte le Mothers, poi attaccare l'inno americano stonato e senza musi• co e sparire. Non è che il livello esecutivo molto alto, ma almeno c'era la parvenza della provocazione. Ora, non è avanzata manco quella. Ciao, Frank, e grazie! M. R. Grande Italia (EMI) C'è bisogno d'azione e l'azione musicale italiana nasce dai cantautori, dai gruppi del sottobosco, c.lalleintenzioni e dalle intuizioni nuove. Non so quale merro sia stato usato nel giudicare questo doppio album, a mio avviso interessante nella misura in cui gli si concec.la qualche momento di pausa statica, inevitabile dato il frazionamento delle composizioni ed il numero dei protagonisti, ma la operazione è giusta ed interessante in ogni caso. La scelta è caduta sulla scena del nuovo canto, o meglio della canzone libera e nuovi nomi ne escono, Fran~ co Ceccarelli, « Perché no» di sapore gucciniano e violentemente intimista, Rosanna Barbieri, «Mosaico Femminile» di sensazioni e pensieri giusti scagliati contro sciovinismi e violenze psicologiche, Piero Guccini, «Antidoto» su tulio, lunghissima composizione strumentale interamente giocata sulle chitarre acustiche e l'aria segnata ed acida della California spinta, ma qui è suono nostrano a viverne fecondamente, come nel caso delle « Launec.ldas» dette in altra parte, e poi altro. Francesco stesso, qui partecipe con una « Le Belle Domeniche » che riporta il modenese al « Due Anni Dopo» di felice memoria, ed il protagonista è ancora il vino ed il tempo andato, la giornata grigia e costantemente in attesa della quotidianità giungono ancora a violentare orecchio ed animo, con un pessimismo che va trasformato ad ogni costo e non lasciato lì, a caso. Meno felici le porzioni affidate ai gruppi, buona comunque la performance della Pavullo Band in « Mnemophoto » e della « Glasberg » di Amos & Amici: qui la chiarezza di limiti non tanto strumentali quanto di contenuto e di rabbia sevogliamo, ché le formazioni afferrano qua e là e reinventano il blues con freschezza, ma staticamente, senza evoluzioni. Ben più oltre i propositi dei cantautori succitati ... qualcosa da continuare, al di là di qL1esta occasione, di difficile resa acustica tra l'altro e non del tutto digeribile a più ascolti. Maurizio Baiata Kevin Ayers - Sweet Deceiver - Island Solo un altro maniaco mattutino che porge il frutto culturale delle proprie giornate trascorse orizzontale su qualche divano di Chclsca a sognare. Piccoli sogni tranquilli di una mente bombardata. L'atmosfera per il rilassamento totale della testa stanca da un giorno di città dura. Assetata di fuga dal reale. Non si ti-atta di sicuro di un disco terribilmente importante: c'è qualche lacuna qua e là anche per quello che riguarda il gusto della realizzazione ma Kevin sembra muoversi come un principe nell'ariosità delle melodie corro11e dal proprio candore, dalla propria incapacità di essere adulto. Certi brani chiamano al confronto con le altre stelle della 39 decadenza come Observation pesantemente "roxy" e Sweet Deceiver a la Lou Reed. Dal confronto Kevin esce intatto, ispirato quel tanto che basta per essere "rispettabile". "Alziamo le nostre voci , e cantiamo per le nostre vite,, e immediatamente un coro lo contrappunta con "beviamo per le nostre vite". In questo valzer di ci11à forse tulio il romantico disimpegno di tutta una corrente. Danilo Moroni Isotope: lllusion (Gull) Innesti efficaci, giusto prima dell'incisione di questo nuovo album, fanno di Isotope una c.lelle formazioni di jazz inglese più aperte ed interessanti. Non che il suono sia trascendentale e le intuizioni spiritate, ma è un po' tutto il discorso ritmico, generoso e preciso, a colpire favorevolmente. Gary Boyle è chitarrista e compositore misurato ed elegante, sa adoprarsi anche all'acustica con estrema eleganza e, se vogliamo un parallelo, la sua vena pare oggi assai simile, pur nella diversa ampiezza di respiro, a quella di Ralph Towner, questo tra i veri, attuali Maestri dello strumento chitarra. Rispetto all'organico con il bassista Clync troviamo in « lllusion » uno Hugh Hopper lucido e dannatamente sveglio, portare il suono un po' dovunque, aiutato da Nigcl Morris alle percussioni con la mente seria ed un drumming sottile e senza troppe ebbrezze e follie, mentre forse ebbrezze e follie si sentono nella prima parte dell'album, tanto vivace e nervosa da risultare nevrotica e stanca, un po' a fare a calci con se stessa. Dove « Illusion », « Rangoon Crecper », « Edorian » sembrano giusto rispondere ai Return To Forever od alla Mahavishnu, suono gimnick che non ha nulla né di jazz né di rock puri, tanto sterile da mordersi la coda ad ogni passaggio: ben più in là è gillnto il nostro Perigeo, cui Isotope dovrebbe guardare con interesse, se non altro per talune affinità stilistiche. Boyle ed Hopper escono dalla cmpasse quando riescono a dare corpo al suono senza ricorrere. ai ritmi « ncJi » per forza o funkyzzari cosl come moda vuole, e la formazione riesce nell'intento a più riprese, denunciando come note negative solo una certa mancanza di organicità, una parziale frammentarietà di linguaggio. Episodi davvero lucidi « Sliding Dogs » e « Golden Section » portano il gruppo ad altezze impensate, superano di getto lo stesso sforzo soft machine, dal quale è sempre difficile prèscindere nel jazz di casa inglese, ed approdano a buone atmosfere jazzate, pulite e godibili, così come credo sia il suono di una formazione ancora tutta da maturare, tutta da vedere, anche se si tratta di bianco jazz d'oltre Manica, lindo ed astuto come si conviene. Dimenticavo << Main Country », stupenda acustica. Maurizio Baiata Rick Wakeman The miths and the legends c,f King Arlhus and the Knights of the Round Table A&M Un titolo lunghissimo per il nuovo mammouth di Rick Wakeman anch'esso lunghissimo (sembra non voler finire mai). Il cast è spaventoso: accanto a Wakemari • e al gruppo di cinque elementi con John Hudgson alle percussioni, Jeffrey Crampton alle chitarre, Roger Newell al basso, Barncy James alla batteria e Ashley Holt e Pickford Hopkins alle voci trovano posto infatti una orchestra di cinquanta elementi, un coro di quarantacinque e il Nottingham Festival Group. \X/akeman sente evidentemente di doversi mantenere all'altezza del suo nome più con sfoggio di oro che con altro. La composizione ha valore fino a che il disco non è finito di incidere e in questa fase in quanto ad atmosfere pompose e roboanti Wakeman non ha niente da invidiare, mutatis mutandis a Keirh Emerson in persona. Le liriche e la musica contribuiscono insieme ad accendere visioni holli woodiane con Lancillotto e magari pure Robin Hood. Ad incisione completata il rapporto tra Wakeman e la sua creazione finisce e comincia il lavoro di lancio del prodotto con il "concerto sul ghiaccio" a Wembley in maggio, nel corso del
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