ciso sulle parole dei canti popolari. Questo testo ne è un esempio » è tutto quello che si riesce a dire di un canto di emigrazione. Ma perché non fare uno sforzo per dirci quanti sardi emigrano, da dove, dove vanno, e perché?). L'apparato critico del disco degli Aggius è decisamente squallido. L'introduzione di Salvatore Laurani parte su un tono di misticismo pseudo-antropologico per poi fini re con un'interessata e smaccata esaltazione reclamistica di Maria Carta (ma guarda un po'!). E il paternalismo trabocca da tutti i pori: un canto, per esempio, è « non privo ... di una sua delicata poesia ». E vorrei aggiungere che più della metà del materiale presentato nel disco degli Aggius èra già stato pubblicata in un aluo disco degli stessi esecutori fatto dai Dischi del Sole e nel disco dello spettacolo « Ci ragiono e Canto » (sempre dei Dischi del Sole), almeno 6-7 anni fa. Il fatto è che il complesso dell'operazione mira non tanto ad approfondire la nostra conoscenza della cultura popolare sarda, quanto ad immettere i più godibili materiali sul mercato - sotto specie di merci, da ; '' ;~- :i~- t ~ \o 2 -~- ,_ ~ ... 1~~ ., '; ascoltare magari "·eligiosamente (con l'avallo di importanti specialisti come Carpitella), ma non da capire. Tutta diversa l'impostazione di un altro disco recente, Is Launeddas », dei « Dischi del Sole ». Anche qui, come nel caso dell'antologia di Carpitella, Sassu e Sole, si tratta di un disco specialistico; il curatore è un etnomusicologo Danese, Friedolin Weiss Benzon, autore di un libro conclusivo sulle launeddas. Il materiale informativo che accompagna il disco analizza l'origine di questo strumento che è forse il più arcaico tuttora in uso nell'area del Medi terraneo. Spiega poi la tecnica di esecuzione, basata sull'uso di tre canne, di cui una esegue il canto, una il contrappunto, ed una il bordone. E' chiara ]'importanza di uno strumento del genere anche come fonte di idee musicali «nuove» (nuove, cioè, per i musicisti urbani di oggi; in realtà, a sai antiche nella cultura popolare), e quindi l'ascolto del disco è una esperienza musicale importante in sé. Ora, a conclusione di questo breve esame, vorrei anche fare caso ad un fenomeno non trascurabile: è cioè al !~ - '•:n i I ~ o; J l 17 fatto che in tanta produzione discografica dedicata alla Sardegna manca del tutto (salvo nelle intenzioni della collana regionale dei Dischi del Sole) un'immagine della Sardegna di oggi. L'isola ci viene presentata come una specie di grande parco nazionale della musica popolare, in cui specie altrove estinte sopravvivono in apparente libertà, ma ridotte all'innocuità dal fatto che la storia le ha superate. Ma la Sardegna non è tutta qui. In Sardegna c'è Porto Torres. In Sardegna c'è il Sulcis e l'Iglesiente, con le miniere (ed i licenziamenti), con le fabbriche (e le occupazioni operaie) di Portoscuso, di Iglesias, di Carbonia, di Cagliari, di Ottana. Possibile che queste realtà nuove, non tradizionali, non abbiano inciso per niente sulla cultura popolare sarda? Possibile che ci si continui a parlare di una Sardegna pastoralcontadina, se non brigantesca-feudale, fuori dal mondo del caµi tale e della classe operaia? Una Sardegna atavicamen te oppressa e tragica anziché una Sardegna modertata? Un esempio per capirsi. Ho accennato che, per esempio nei due dischi della FonitCetra ci sono anche dei canti « di protesta ». Sembra di sentire i leoni che ruggiscano nei parchi nazionali del Sudafrica. Perché sono protesta, non lotta: per esempio, dal disco del Coro di Orgosolo è stata esclusa la splendida canzone sulla lotta popolare che nel 1968 impedì ai militari di impadronirsi dei pascoli di Pracobello. Forse si rischiava di commettere vilipendio delle Forze Armate. Ma forse si introduceva una immagine non convenzionale della Barbagia: non solo sofferente, ma organizzata e cons:ipevole. Cerco, siamo molto lontani dal primo disco su OrgosoJ~ sul « Sa Bandiera Ruja » cantato da Peppino Marotto e un gruppo di compagni del suo paese (prodotto dai Dischi del Sole), in cui si partiva da Gramsci per arrivare al Vietnam: un disco tutto su forme tradizionali, ma tutto intriso della consapevolezza dell'oggi, e non a caso usato poi in Sardegna come strumento di intervento politico. Ne ho discusso con i compagni di « Su populu sardu », un movimento « anticolonialista » che opera in Sardegna e fra gli emigrati sul continente. Loro pensano che il modo in cui il « folk revival » è arrivato in Sardegna sia stato sostanzialmente colonialistico e consumistico, ed abbia accentuato il distacco delle giovani generazioni dalle forme espressive popolari tradizionali. Di qui, sempre nel giudizio dei compagni di « Su Populu Sardu », la relativa mancanza di canto di protesta in Sardegna. Discutendone, ci siamo però convinti che probabilmente quello che si conosce non è che una punta di un iceberg sommerso, e che i materiali politici non ci sono noti soprattutto perché nessuno li ha cercati (oltre che per le caratteristiche specifiche delle forme espressive sarde, basate sull'improvvisazione, e che quindi non tendono a conservare canti o strofe legate ad attualità specifiche). Di qui, dunque, la necessità di dare un'impostazione politica alla ricerca, per poter veramente raccogliere tutto quello che esiste nel patrimonio popolare. Ma anche quella di dare un'impostazione politica all'analisi anche dei materiali non direttamente politici (religiosi, lirici, rituali, narrativi} per riuscire a capi re davvero di che si tratta. Insomma, vale la pena di ascoltare la musica popolare - tutta la musica popolare, non solo le parti più godibili - se abbiamo intenzione non di goderci il rimpianto del passato, ma di conoscere e trasformare il presente. Sandro Portelli
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