Jna tesi recente dell'Istituto di storia delle Tradizioni Popolari a Roma mostrava come circa il 45% dei dischi di musica popolare editi in lttalia siano dedicati a Sicilia e Sardegna (il 30% circa a quest'ultima). In parte; questo è spiegabile con la ricchezza del patrimonio musicale delle due isole (non a caso, direi, isole! ); ma altre regioni assai ricche e interessanti sono ignorate: per fare un esempio, l'Umbria è virtualmente assente in questa produzione. Io direi che si tratta soprattutto di un'operazione di consumo dell'esotico. Il simbolo principale di questa operazione (dopo il fallimento di Resa Balistreri, troppo autentica nonostante tutto) è oggi la folk-diva Maria Carta. La vediamo ingioiellata in abito da sera sulla pagina culturale del!'« Espresso»; la ritroviamo che spiega alle lettrici rusconiane di « Grazia » gli esotici riti che presiedettero alla sua nascita come se parlasse dell'Africa Equatoriale. Vediamo infine che solo per fare da contorno a lei si apre in TV lo spazio per un programma sulla Sardegna e la sua musica. E ci rendiamo conto sempre di più che i contadini, i pastori, i minatori, gli emigrati sardi che hanno creato questa musica e questa poesia sono solo un pretesto, ma restano esclusi dalla gestione dell'operazione « folk » che si compie con Maria Carta. D'altra parte, non è detto che la moda del « folk revival» venga tutta per nuocere. Per esempio, è difficile pensare che senza questa moda si sarebbero potuti pubblicare ed offrire alla normale distribuzione commerciale dischi come quelli della trilogia « Musica Sarda » curata da Diego Carpitella, Pietro Sassu e Pietro Sole per la Vedette. Qui. lo sforzo conosd tivo è evidente, soprattutto nella ricca, articolata presentazione teorica e scientifica. Ma io vorrei soprattutto ricordare che la musica che si ascolta in questi tre dischi di registrazioni su campo effettuate in varie zone della Sardegna, eseguita quindi prevalentemente da musicisti tradizionali non professionali, è infinitamente superiore a qualunque cosa si possa ascoltare nei dischi di Maria Carta C'è da rimpiangere solo il fatto che la musica sarda è qui assunta come fenomeno a sé, un po' staccata dal complesso della realtà sociale della Sardegna; perciò l'antologia è un documento parziale (né vuole essere di più), ma egualmente fondamentale. Altri materiali di m:.isica sarda, in esecuzioni di musicisti tradizionali, sono uscite nella collana « Folk » della Fonit Cetra. Da un lato, abbiamo un disco - « Pascoli serrati da muri » - del Coro del Supramonte di Orgosolo; dall'altro, « Le me' brunedda è bruna » degli Aggius (Coro del Galletto di Gallura). Ora, l'intera impostazione della collana « Folk » mi sembra assai discutibile, proprio perché orientata a dare un'immagine passatista, rurale, del patrimonio culturale delle classi non egemom m Italia, e quindi destinata a rafforzare un'immagine della cultura popolare oggi come residuo e sopravvivenza, più come realtà viva e politicamente operante. Però i due dischi in questione sono, almeno ad un primo impatto, splendidi. Il perché è ovvio: la personalità e la bravura degli interpreti sono fuori discussione. Si tratta di contadini, pastori, braccianti, operai che eseguono a modo loro, nel loro stile, il proprio patrimonio musicale tradizionale: la polifonia barbaricina ( « sos Tenores ») per il gruppo di Orgosolo. ed una musica impastata di influssi sacri in quello degli Aggius. Sono, ovviamente, interpreti di alto livello; però, qualche cosa su0na buffo. Anticolonialismo Samusicasarda Tra il folclore posticcio di Maria Carta ingioiellata alla televisione e gli effetti osteria degli orgosolesi che imitano se stessi, nessuno pare aver voglia di sentire la Sardegna com'è oggi. Per esempio, non riesco a levarmi di dosso, nell'ascoltare il disco di Orgosolo, che nonostante tutto i compagni orgolesi siano impegnati in qualche modo ad « imitare » se stessi per il beneficio del mercato discografico. Che senso hanno, per esempio, quei « richiami di pastori ». così ovviamente registrati in studio, senza funzione; o quella « mc\rra » giocata fuori da un'osteria? Bastava andare a Orgosolo con un registratore, si sarebbe avuto del materiale ben diverso. Ma qui l'impressione è che si voglia dare al consumatore, più che l'autenticità, l'illusione dell'autenticità. Perciò i « rumori di fondo » servono a fore colore locale, quello 16 La • conquista • della Sardegna cioè che si chiama dispregiativamente « folklore ». L'impressione la rinforza la presentazione dei dischi. L' introduzione di Diego Carpitella al disco di Orgosolo è, ovviamente, competentissima e illuminante. Stimola, per esempio, la sua ipotesi circa il fatto che nella cultura popolare arcaicità sia di fatto modernità, perché indica la continuità delle funzioni a cui le forme arcaiche assolvono. Ma poi, quando si rratta di presentare i singoli brani, di analizzarne la struttura, di spiegarne le funzioni, c'è un crollo verticale: noterelle redazionali di due o tre righe che parafrasano i canti, o snocciolano agghiaccianti banalità («anche in Sardegna l'emigrazione ha in-
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