Cinema Nontoccare ladonnabianca « A questo mondo tutta va sù e giù ... » cantava l'ineffabile idolo di tutte le massaie che usano la cera gloglo, al secolo Berti Orietta. Ma la instancabile propagandarrice di luoghi comuni non pensava, con quella frase, ai registi italiani. Per i quali tutto è fermo, immutabile, eterno e autobiografico. Pensate solo a quell'esempio di pudore di Fellini detto « privacy » per il suo essere alieno dal raccontare i casi suoi. Potete essere certi che il suo prossimo film descriverà con minuzia di particolari barocchi il suo primo incontro con il basket o la prima volta che è passaro dal popparoio al cucchiaino (le uniche cose, del resto, che ancora uon ci ha detro ). O ancora a quel giovialone di Visconti che, potete starne certi, ci farà la sroria, sulla scorta dei Buddenbrook manniani, della decadenza di una famiglia Papua. O a quell'altro fulgido esempio di eclettismo di Anronioni, che una volta di più ci porrà la tematica originale delle crisi esistenziali sarrrianoamletico-kierkegaardiane. O pensate al padre del ridicolo nazion~le, fra Zeffirello, che ci ammannirà un film all'anno prendendo spunto dal calendario (a parte l'imbarazzo di fare un film sulla circoncisione o uno sulla i1nmacolata concezione). Pensate ancora a tanti altri meno mostri sacri, ma altrettanto monotoni e grigi, di cui, per noia, omettiamo i nomi. Il lungo cappello è solo per presentare l'ultima fa. tica dell'unico (o quasi) regista virale di questo mondo triste e senza speranza. Si tratta di Non toccare la donna bianca di Marco Ferreri. Un modo come un altro di far spiccare, per contrasto, un grande regista in un mare di desolata vuorezza. Lui, ed è imporrante, in questo film non c'è: non ci racconta la sua storia personale, non ci dice nemmeno (incredibile per un regista) quanre volte si è ubriacato per tristezza o brindato per allegria. Ci racconta la storia della battaglia di Little Big Horn, fra Toro Seduto e Custer, ambientandola nella Parigi di oggi, patria del falso cosmopolitismo europeo, di fatto razzista e capitalisticamente ordinata. I continui paralleli fra gli indiani e i calabresi, l'appoggio della Cia allo sterminio indiano (un Paolo Villaggio finalmente credibile), il faccione odioso di Richard Nixon a copertura dello sterminio fascista degli indiani accampati alla periferia. Il non-sense, l'anomalia della situazione non sono mai, come talvolta nell'ultimo Buiiuel, elementi svianti: l'ironia di Ferrari, la critica feroce e « spiri rosa » ( se ci passate il termine) della società capi ralistica, riscattano completamente la « situazione ». E il discorso politico passa con facilità, senza ideologia, senza pesantezza neo-realista. Saranno anche le diverse simpatie politiche (pur sempre nell'ambito della sinistra) ma volete mettere questo film con le lungaggini Tavianee (dei fratelli, non del ministro) tutte sottilmente tese a dimostrare che l'estremismo non paga e che il borghese tale ha da rimanere? La figura del « pazzo » (un Serge Reggiani perfetto) contrappunta politicamente la storia e la follia dell'accostamento Indiani-Parigi, fornendo senza pesantezza le chiavi di lettura del film, alcune chiavi di lettura. E la paradossalità delle situazioni non è gioco ioneschiano ma anzi semplice riguardare le cose nella loro ultima realtà: per tragica che sia, per falsa che possa sembrare sempre realtà. E qui la grande lezione di Ferreri, l'ambigua ironia che svela una realtà agghiacciante: quella del capitale e della sua, ora rozza ora raffinata, ideologia. G. P.
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