stile « dylaniano » alla casa madre. In realtà qualunque siano state le ragioni per Dylan di lasciare la propria casa discografica e poi tornarvi a solo un anno di distanza, questo ritorno coincide con un momento di grande ispirazione. Come sempre in Dylan l'ispirazione, la capacità di esprimere sentimenti universali coincide con la tristezza sua intima. A 34 anni con un matrimonio in crisi Bob non se la sente finalmente più di impersonare il felice patriarca ebraico di campagna e torna alla sua più classica perplessità interiore nei confronti del mondo che lo circonda. Non è un ritorno alle origini per necessità psicologica ma piuttosto è come se tutto un ciclo fosse concluso, quello che l'aveva visto da Freewheelling a Bionde on Bionde fino a Nashville Skyline e l'inquietante Autoritratto. Prima di questo Dylan usciva con un LP ancora orientato sui piaceri della vita borghese coi genericissimi e distaccati consigli ai propri figli ( ... may you stay forever young ...) Come dicevamo un ciclo si è concluso e Dylan ritorna a cantare e suonare nel suo stile più secco e austero che aveva ormai abbandonato da Bionde on Bionde. Anche la scelta deliberata di incidere questo disco con quattro musicisti praticamente sconosciuti a tutto vantaggio e spicco della propria voce e chitarra è il segno di come questo disco sia nato dall'esigenza interiore di comunicare e non per aggiungere un nuovo album alla produzione. La forza espressiva è sempre riposta in quella capacità ormai cara a tutti noi di abbozzare degli schizzi casuali di situazioni interiori dicendo cose essenziali e giocando nello stesso tempo sulla omissione di indicazioni fondamentali cosicché capita di riconoscerci continuamente nel suo dolore universalizzato. Certo Bob non ha alcuna intenzione di riscrivere Blowin' in the Wind e qui il vento diventa un « vento idiota che soffia intorno al mio teschio » e in esso non soffia più alcuna risposta. La discendenza da Guthrie è ribadì ta anche se i contenuti sono sempre più amari e in questo modo Dylan cerca di riimporre l'immagine di trovatore di un epoca su quella messianica che la prima critica gli aveva appiccicato addosso. D.M. Jack Bruce Out of the storm RSO Solo di tanto in tanto capita anche a chi è del mestiere e ipercritico di ascoltare un album di cui non ha voglia di parlare temendo un confronto tra di esso e le proprie parole. Questo succede quando un disco comunica qualcosa non appena comincia a suonare e subito uno si sente partecipe delle emozioni dell'artista e gli regala candidamente le proprie, e anche dopo aver ascoltato un solo brano hai la certezza che tutto il resto sarà buono. Come fu una volta per Laura Nyro (e non a caso proprio lei) col suo Eli's Coming nella stessa maniera incredula ho ascoltato per la prima voita Out of The Storm di Jack Bruce e mentre la sua voce intonava le prime note di Pieces of Mind mi sono reso conto di fare la conoscenza di uno dei più bei dischi di una certa vena del rock blues inglese al pari di Rock Bottom di Wyatt. Le esperienze diversissime di Bruce sono tutte qui mentre si avvertono l'ispirazione contemporanea nella scelta intelligente di certe note, la voce robusta e ricca di soul di Jack ci rivela un ascolto accurato delle forme più elaborate del soul negro come Stevie Wonder. Jack è un musicista di una categoria a parte, quella che Bob Fripp chiamò dei maestri, e il suo album si stacca di conseguenza da tutta la produzione ultima. Dopo l'esperienza abbastanza monolitica di Wes, Bruce e Laing, Jack ha lavorato per un anno alla realizzazione di questo album con il solo aiuto di Steve Hunter (abilmente a tutte le chitarre) e Jim Keltner alla batteria meno in tre brani dove suona Jim Gordon. Il resto degli strumenti li suona tutti lui come tutte sue sono le voci e qui si potrebbe aprire un discorso sul cantante perché Bruce dimostra di essere in posesso di una tecnica fuori del comune trovando timbri diversi per i diversi stati di animo e organizzando cori con armonie inconsuete. Le parole sono di Pete Brown il poeta cantante che aveva già collaborato coi Cream e la sua poesia sensoriale fatta di allusioni malinconiche si sposa benissimo con la musica che ora è ritmata con anticipazioni jazzistiche, ora va oltre l'esperienza cosciente nella scelta, come in Running Through our Hands, di note che evocate dal profondo del « musicista in sé » riportano alla mente certe esperienze contemporanee. In Golden Days i Cream si riaffacciano nel timbro dei c;ri ma è solo un'impressione di colore e subito è chiaro quanta strada Jack abbia fatto specialmente se si confronta il suo discorso con quello non proprio eccitante cui il suo ex compagno Clapton è pervenuto. Evidentemente al di là del protagonismo di Eric all'apice della sua bravura Jack è stato il cervello musicale dei Cream. Scozzese anche lui, connazionale di Van Morrison e come lui con un'anima piena di soul da cantare. Forse il soul inglese a differenza di quello americano prospera nel clima freddo e rugiadoso della Scozia o forse la questione non è climatica ma sociale e politica e allora ci sembra giusto che esso nasca e si sviluppi nella Scozia sensibile ai problemi politici assai più della Gran Bretagna dominatrice. Danilo Moroni Wishbone Ash there's the Rub MCA Nuovo album per i Wishbone Ash che conferma il gruppo nella tradizione del migliore rock blues inglese di cui la Family ha rappresentato per tanto tempo la punta di diamante. Eredi più che altro nello stile, nel colore, perché Chapman e compagni per quanto riguarda i contenuti rimangono sempre
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