Virgin Virgin, o dell'altra Inghilterra. Le importazioni, le nuove idee, il rifiuto della vita discografica tradizionale, nelle espressioni della Virgin Records: da Mike Oldfield a Robert Wyatt, dai Faust ai Tangerine Dream, tra la pazzia innocente e la consumata furbizia. Quando esplose il caso « Tubular Bells » gli interrogativi iniziali si l!rano già chiariti: da un insieme artigianale sfociante in proporzioni produttive a livello di altri colossi del pop inglese, Island, Polydor ecc., apparivano le linee decise di una politica musicale quasi rivoluzionaria, almeno in terra inglese, autogestita da un gruppo di giovani, non codificata nella mercificazione del prodotto, palesemente libera. La Virgin esordiva al momento giusto, come stimolo e ad un tempo sutnma di forze ed idee che avevano giusto la necessità di essere raccolte, in qualche modo compendiate sotto una precisa etichetta, insomma ad uscire dalla clandestinità, a far parte della scena: l'opera di Mike Oldfield serviva di getto alle proposizioni iniziali, perché poteva essere di incoraggiamento. per un nucleo ben precisato di musicisti (del quale parleremo più avanti). nonché per dare all'assonnato pubblico inglese una sferzata dura e concreta. « Tubular Bells » dunque, con tutte le sue invenzioni, le ingenuità, le fratture e quella strana uniformità di fondo... prendiamola ad esempio per iniziare questo esame della Virgin ormai mitica, della Virgin ormai considerata il simbolo dell'avanguardia inglese, di un'etichetta cui si guarda con fiducia, e le ragioni, il sustrato, i sogni, l'esempio. Prima considerazione di fondo: un prodotto nasce per essere venduto e possibilmente acquistato da un certo numero di persone, abbisogna dunque di alcuni requisiti fondamentali; lo spunto creativo (l'idea), la realizzazione tecnica, la confezione, la promozione pubblicitaria svolta nei giusti canali, la vendita. Seconda considerazione di fondo: la musica d'avanguardia, di qualsiasi natura ma etichettata in tal modo non risponde ai requisiti suriportati, giacché l'organizzazione discografica tradizionale ne restringe il campo d'azione a poche centinaia di copie (albums) vendibili, perché operazione il più delle volte artigianale o come frutto manuale di un'idea mentale libera, perché ancora mal fruibile dal gran pubblico, insomma un'ooerazione fatta in perdita all'~rigine. Terza considerazione di fondo: il «marketing» (studio del mercato tecnico e della psicologia di vendita ed acquirenza) impone sulla scena il prodotto più consono a far soldi, non certo a sollazzare le menti più o meno distorte, più o meno illuse di quanti 18 alla musica credono veramente. Conclusioni: il tentativo di « Tubular Bells » era un salto nel buio e l'opera, nella sua struttura suitistica, monolitica, monotona in alcuni tratti, si presentava di difficile digeribilità radiofonica (uno dei canali mass media è il mezzo audiovisivo naturalmente), avrebbe lottato con la stampa anglosassone, tipo « Melody Maker », ormai da sepolcri imbiancati del rock business, si sarebbe presentata ad una massa o ad un'élite, o ad entrambe? Gli interrogativi restano, nonostante il successo innegabile, giacché non si è compreso appieno il tipo di pubblico interessato alle campane tubulari, perché non si è capito se la svolta tipica sia avvenuta nei seni dell'ultimissima generazione, quella imbambolata degli Sparks e di Gary Glitter, oppure si sia trattato di una fiamma strana, caldissima, emanata dagli ultimi fuochi, dalle ceneri ancora rosse e scoppiettanti della vera rock generation ... allora il disegno non è chiaro, il successo forse inspiegabile, ma quei propositi originari, raggiunti e soprattutto torna ti alle mani della Virgin come boomerangs ben lanciati, sono oggi nelle teste dei Tangerine Dream, di di Robert Wyatt, ecc. A noi resta da domandarci se « Tubular Bells », oltre alla sua natura musicale ambigua ed introversa non nasconda il gioco più sottile e perverso di « vendere » nel modo tra-
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