Muzak - anno II - n.10-11 - agosto/settembre 1974

JUNE '74 John Cale - Nico Kevln Ayers - Eno (lsland) Musica della dinastia scomparsa: mamma Inghilterra raccoglie le fila della sua propria pazzia, serra i ranghi attorno al suono bruciato delle ultime generazioni, nasce "June 1,'74" come testimonianza di una non accettazione del sistema spinta ad oltranza, di una lotta realistica che accomuna da anni i gruppi "espressionisti" inglesi. L'organico è ampio per un'occasione che forse non avrà ripetizioni nel futuro e raccoglie un po' la crema dei musicisti aggrappati alle dimensioni "passato-futuro": John Cale e Nico, ex Velvet Underground, Kevin Ayers, il dandy biondastro ex Soft Machine, Eno, ex Roxy Music, Mike Oldfield, Robert Wyatt, Ollie Halsall... si ostenta un suono greve, mutuato dall'esperienza dei singoli poi convogliata nell'atmosfera dolce-tragica cara a Brian Jones ed a Jim Morrison ... opera forse dedicata alla generazione rock scomparsa col finire dei '70, opera singhiozzante attorno ai suoni duri del rick elettrico e di velluto... non ci sono trovate, non c'è lirismo eppure il discorso non è pessimista così come ~uole la terribile "mania" d~ decadenti, piuttosto, è vero, si respira un'aria pesante, malsana, ma è la malattia del rock attuale a farne le speese, perché questi artisti vogliono dimostrare di essere i soli giusti in terra Inglese, il nucleo che ha veramente compreso la tremenda caducità della situazionè attuale. Per questo Eno e Cale, tra tutti, incarnano alla perfezione il ruolo di protagonisti del drammuza ma, ed il loro gesto è misurato, gli occhi e lo sguardo allucinati nel groviglio di "Baby's on Flre", di "Driving Me Backwards" e soprattutto "Heartbreak Hotel". triade eminentemente elettrica. sonorità dure e levigate ad un t~mpo, con Robert Wyatt ed Ollie Halsall tra le bellezze reali ed obbiettive ... Nico appare trasfigurata e metafisica, pallore quasi mortale sulle guance, voce scavata nel passato ed è sua la performance forse più sconvolgente: Nico canta la "The End" che fu del Morrison mitico ed insuperabile, Nico sceglie la semplicità di un cantato presente nella realtà, addensato e convogliato verso "la fine", ma in lei non c'è compiacimento, non una parola od un gesto di raffinàtezza o di artificio... la sua spontaneità dona alla canzone della morte e della vita l'amore caldo per Jim Morrison ... l'amore freddo per una vita che sfugge. Siamo dunque in un terreno minato e si ha paura di saltare per aria a causa di questi paradossi musicali, di quest'alternanza di gioia e crisi come esaltazione di ogni sentimento, come romanticismo schietto e spiegato in abbondanza: nel suono della prima facciata c'è l'intera storia del rock anglo-americano, dai '60 ad oggi e la visione è completa, intelligente e fantastica, pure tra le fratture inevitabili dell'esecuzione live che, peraltro, giunge a consacrare ancora di più la dimensione elettrica ed arcana di questa occasione... Ayers, sua la seconda parte per intero, giunge a noi tra suoni in dissolvenza, immerso in un'atmosfera sognante e cabarettistica, dispiega la propria materia musicale con distesa apprensione, anche se la lucidità non è mai stata sua, e canta a lungo, sulle note delle sue ultime composizioni, "May I", "Two goes lnto Four" con una dolcezza ed una semplicità che è bene non interpretare per banali: Kevin ha nell'animo un suono francese e stanco, una lingua sciolta pure se timbricamente sempre eguale, buone risorse tecniche e l'aiuto di Halsall, Oldfield, Rabbitt, Cale ed uno stupendo Wyatt... Al senso di questa sorta di rito del rock non si poteva chiedere di più e l'album è un mezzo per collegarsi direttamente col pianeta degli emarginati, per toccare con mano il vero gusto del rock inglese, cogliere, proprio dal proscenio, tutta l'amarezza della nostra secca storia, fortunatamente rinfrescata da questa sapienza strana e dissociata dal sistema e dalla musica da camera delle istituzioni. m.b. BOBDYLAN The band - Before the flood (ASYLUM RECORDS) Dopo non poche peripezie legali esce finalmente il sospirato e mitico album doppio di Dylan e Band dal vivo. Registrato durante la ormai storica tournée americana dall'inverno passato, l'album è ancora una volta una sorpresa: qualcuno direbbe che quello che ascoltiamo è un "nuovo" Dylan. Forse è vecchio, comunque ci aggredisce con il suo cambiamento e la sua nuova forza. Ogni album è sempre stato un Dylan "nuovo". Già Freewheellng, rispetto al primo Bob Dylan, fu un affascinante mutamento; poi Another Slde e i primi che dicevano "questo non è folk", scandalizzati per l'abbandono della protesta; poi Brlnglng lt AII Back Home, con la prima facciata elettrica, i sotterranei blues nostalgici che preannunciano un rock ben più deciso, eppoi quell'incredibile modo di parlare, di cantare la vita, le immagini di incubi reali, "lasciati dietro i gradini che hai salito / qualcosa ti sta chiamando / dimentica i morti che hai abbandonato / non ti seguiranno I il vagabondo che bussa alla tua porta / ha indosso i vestiti che portavi una volta / accendi un altro fiammifero comincia daccapo / ed è tutto finito adesso baby blue", il credo nell'eterno mutare delle cose di Dylan condannato dai "professori"; poi Hlghway 61, .il rock e la meraviglia, "ma questo non è più Bob Dylan!", la musica feroce, le parole di assoluta condanna, senza salvezza, le canzoni che diventano hits, eppure sono meravigliose, che significa commerciale?; Bionde on Bionde sulla stessa strada, meno essenziale. Se fino ad allora, perlomeno, nonostante i cambiamenti continui c'era sempre stata una progressione abbastanza logica, dopo l'incidente motociclistico tutto diventa imprevedibile. Nella fase della scoperta elettrica di tutti, eccolo precipitarsi sul suono acustico appena sfiorato, in un senso di calma sospesa, John Wesley Hardlng e la serena dolcezza del finale del drammatico discorso del disco, 1'11be your baby tonlght, l'idillio campagnolo che preannuncia Nashvllle; nel frattempo i basement tapes con la band, suono pieno non rifinito; eppure ufficialmente il country dolce e divertente, Johnny Cash; fino alla musichetta leggera, peraltro fatta stupendamente, del nuovo Dy- • lan di Selfportralt, un colpo al cuore, canzoni altrui, degli eroi del passato precorrendo la moda che stigmatizzerà la fine del '73; poi New Mornlng ed è indubbiamente altra musica, fino al nuovo Dylan messicano di Pat Garrett; e il "nuovo" Dylan di Planet Waves? non l'abbiamo salutato tutti come tale? con la Band alle spalle abbandonate le insulsaggini di poco prima. Ora, finalmente, si dice, abbiamo ancora un Dylan "nuovo", ma che dico, rinato, l'antica ·rabbia ritrovata (chissà dove e per che cosa) la voce dura e sferzante. Forse non ci siamo accorti che Dylan è Dylan, non è né nuovo né vecchio, Dylan è il migliore anche nel farsi il verso. Ogni cosa provi a fare è sempre una meraviglia, anche la musichetta tutta cori e violini di Selfportralt, anche in questo campo ha dimostrato la sua superiorità di musicista e di attore. Come disse lui stesso a Keith Richard "lo avrei potuto scrivere 27

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