Muzak - anno II - n.08 - giugno 1974

nata guida discografica, ha il merito di inaugurare nell'ambito della critica italiana un metodo di analisi collettiva e quindi globalmente approfondita, ma soprattutto p.iù svincolata dagli indirizzi imposti dall'industria. Per quanto riguarda il jazz, la situazione è ovviamente assai meno pion.ieristica; anche se proprio quello che è venuto dalla musica dei '60, con il relativo crollo d.i etichette-barriere tanto comode alla critica stagionata e l'estrema politicizzazione della musica d'avanguardia afro-americana, ha costretto tutti a ripartire ab ovo. E !'in izia tore di questa rivoluzione della critica jazzistica che ha affiancato l'esplosione del free è stato senza dubbio Le Roi Jones, il cui « Popolo del blues» (Einau· di) è ormai considerato ovunque un classico e che anche in Ital.ia ha determinato una svolta irreversibile sia tra i critici che tra il pubblico. Scritto con la pa~- sione del mititante nero, il libro di Jortes non è certo un· testo di critica scientifica, ma piuttosto un « pronunciamento » ideologicomusicale che ha portato nuova luce sul passato del jazz e ha aperto le strade alla comprensione del free (e di tutte le attuali forme di musica cosiddetta « totale» che nel free affondano le loro radici). La critica ufficiale nostrana, prima abbastanza fertile di pubbticazioni di bonario tono informativo - divulgativo, si è fermata col fiato sospeso davanti agli eventi esplosivi e « razzisti » di questo decennio. Anche la recente riedizione (Garzanti) del « Libro del Jazz» di Joachim E. Berendt, il testo fondamentale del noto critico tedesco considerato fino a pochi anni orsono un capisaldo della critica jazzistica europea, ha assunto un sapore un po' anacronistico. Apparso inizialmente come un fenomeno strettamente musicale (e di tutt'altro che facile recezione), il free jazz paradossalmente è diventato un momento privilegiato della presa di coscienza dei musicisti neri e in generale della funzione sociale della musica. Perciò questa corrente d'avanguardia, (di cui i facili profeti pronosticavano una rapida fine, una specie di naturale soffocamento nelle sue stesse spire di movimento elitario) ha lasciato un segno in tutte o quasi le esperienze musicali avanzate dello ultimo decennio e ha spazzato ovunque vecchie formule e comode restrizioni di metodo. Propr.io grazie alle polemiche posizioni assunte dai suoi protagonisti, il free jazz ha sig11ificato la rottura di un sistema critico sulla presunta superiorità della cultura musicale occidentale. In questo indirizzo di sociologia musicale si inserisce il volume « Free Jazz / Black Power », dovuto a due giovani critici francesi, Philippe Carles e Jean-Louis Comolli e apparso in Italia solo l'anno scorso (Einaudi). Si tratta di un contributo insostituibile, che va molto oltre le stesse proposte di Jones e analizza i principati collegamenti del jazz (specie quello dei '60) con i movimenti politici neri e lo svilupparsi della coscienza rivoluzionaria nel popolo negro americano. Non son queste novità in assoluto: già molti anni fa lo scrittore negro Langston Hughes sosteneva l'esistenza di legami diretti tra la rivolta di Harlem del '43 e la nascita del be bop. La differenza è che ora non sono più assunti di una limitata intellighenzia nera. ma presa di coscienza dei musicisti, dei critici e dello stesso pubblico (•sempre meno disposto ad una fruizione prettamente estetica di questa musica). E' un segno tipico degli anni '60 e finisce con il condizionare non solo l'evoluzione del jazz, ma anche di molta altra musica d'avanguardia. Dati i presupposti, non sono molti i contributi da parte italiana, specie se si prende in considerazione soltanto i libri e non i saggi apparsi sulle rJviste specializzate. Ricordiamo «Jazz e universo negro » (pubblicato da Rizzoli un paio di anni fa), in cui sulla· base dei presupposti jonesiani un critico letterario appassionato cultore di jazz, Walter Mauro, costruisce un ampio excursus su svariati temi e personaggi della storia del jazz. Solo negli ultimi mes,i è apparsa la prima opera interamente dedicata al free degli anni '60 da un critico militante italiano: è « Canto nero » di Giampiero Cane (editore Guaraldi). Una approfondita revisione delle motivazioni sia ideologiche che musicali del movimento, inteso come una diversa pratica della musica a metà tra utopia e realismo. Problemi tecnici e problemi sociali si intrecciano in questo libro coltissimo e di non facile lettura, ma certamente fondamentale: la riflessione critica si sviluppa organizzando nei vari capitoli le disarticolate dichiarazioni poetiche dei musicisti e nicostruendo il cammino del free attraverso la testimoniam:a dei principali nrotagoT)isti ( da Minj?Us a Coltrane, -da Ceci! Taylor a Ornette Coleman. ad Albert Ayler, Sun Ra, Don Cherrv. Archie Shepp Phar,1oh Sanders, etc.). Per cogliere il senso di questa rivolta contro la cultura eu· rocentrica, basterà ricordare i toni polemici con cui Tavlor parlava di Cage e dell'avanguardia bianca : « ... auando discorrono di musica lo fanno in termillli di ciò che oer loro è musica. Non si sono mai assoggettati, ad esempio, a ouelli che sono i criteri con cui Armstrong giudica la bellezza... per o! semplice fatto che non conoscono quei criteri ». Gli anni sessanta sono stati tutto ouesto: un turbine di sconvolgimenti e rifiuti, di innovazioni e di utopie. Una quantità di nuove proposte musicali che ha eccitato e disorientato; ma soprattutto ha stimolato ad approfondirne i termini, ad appropriarsi di nuovi criteri di giudizio. che ci erano estranei per formazione culturale o condizione sociale. E' appunto in vista di que- 'sta essenziale fumJione che è augurabile un rafforzamento delle iniziative editoriali. affinché il libro sulla musica divenga anche da noi uno strumento usuale, non solo di consultazione, ma anche di formazione. Peppo Delconte 47

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