COLIMAN venne in Europa per più o meno lunghi periodi per suonare qui e là, respingendo sistematicatnente mana• gers, impresari e dntermediari vari, era ancora con• siderato dai più un « arti• sta maledetto », un pazzoide miscelatore di suoni. Ora la situazione è cambiata: il suo fondamentale ruolo nelle r.ivoluzioni musicali degli anni '60 è riconosciuto pitl o meno da tutti, anche se spesso solo accademicamente o per una sorta di senso d'inferiorità culturale nei confronti di certa musica nera. La verità è che fuori dall'ambiente dei musicisti Coleman è ancora oggi un misconosciuto o quasi. Attualmente è molto meno noto di jazzisti o ex-jazzisti, perlopiù dell'ultima generazione, che si sono arresi in• fine, più o meno dignitosamen te, alle lusinghe di un discorso più facile e remuneratlvamente più « cQmunlcatlvo ». Di tutto ciò Ornette è ampiamente cosciente. Durante il me~e e più in cui lui ha fissato la sua base a Milano, l'ho incontrato -spesso e, oltre a sentirlo suonare con li proprio gruppo, ho avuto modo di scambiare anche parecchie idee con la persona. Ornette è "perfettamente conscio del suo ruolo nella recente storia della musica afroamericana; sa (lo ha visto con i propri occhi) che le inedite intuizioni ch'egli ebbe verso la fine degli anni '50 non si sono dimostrate velleitarie o fantomatiche farrieticazioni della sua mente più o meno fantasiosa. Ma, unitamente ad analoghi, anche se non perfettamente combacianti slanci inventivi di pochi altri -spiriti libeni come Ceci! Taylor, Albert Ayler, 1ohn Coltrane, Sun Ra, Don Cherry, le sue creazioni musicali si sono rivelate ricche di insegnamenti e di suggerimenti per un'intera generazione di artisti. E non solo per quei musicisti americani più o meno strettamente legati con la tradizione afroamericana, ma pure per numerosi altri provenienti da ben differenti scuole e retroterra culturali. Ornette, però, sa anche che le numerose ed inique contraddizioni in cui si dibatte la società attuale 42 tendono a relegarlo ad una figura puramente onorifica e nominale di « santone maestro», proprio quando la sua musica, tutt'ora viva e palpitante (anche se, ahimé, forse sprovvista di quei numeri di « novità » o di « piacevolezza ,. formali tanto cari all'industria dello spettacolo), merJterebbe una diffusione maggiore e una assimilazione da strati di pubblico precedentemente esclusi da essa. Omette, quindi, è costretto a vivere soggettivamente ed oggettivamente questa pesante contraddizione: da una parte l'ampossibilità fi. sica e mentale di uscire fuori da.i binari che lui stesso si è forgiato tempo fa, senza tradire o perlomeno sna• turare quel discorso personale e assolutamente originale che per anni. ha portato avanti; dall'altra l'ansia e la voglia di allargare la cerchia del suo auditorio, per portare la musica che egli fa, senza alcun compromesso, ad un pubblico più vivo, più aperto, più giovane di quello delle solite sparute e imbalsamate fila dei jezzofili tradizionalisti. Per tutte queste ragioni Ornette, durante la visita italiana, ha rifiutato il più possibile le numerose offerte degli organizzatori nostrani specializzati ed ha preferito affidarsi al caso. scegliendo di volta in volta personalmente le occasioni più propizie e favorevoli ad aprire un dialogo meno angusto. Non sono naturalmente mancati gli errori di valutazione, dovuti alla poca conoscenza della nostra scena musicale e alla sua ostinata intransigenza nel rifiutare il benché minimo intervento di gente collegata con l'ambiente dello spettacolo. E' cos\ passato da esibizioni in can'ali più o meno usuali, come i clubs (Swing Club di Torino e Music Inn di Roma) o i teatri (Milano, Padova ...) e qualche circolo privato, fino ad espenienze ben più -stimolanti e significative, come i concerti in una fabbrica di Bergamo o nella clinica di Limb.iate e nell'ospedale psichiatrico di Trieste <quello del prof. Basaglia). Ma parliamo un po' della sua musica... Il linguaggio colemaniano non è sostanzialmente molto mutato da quello che lo rese noto anni fa, ma c'è sempre lo stesso amore, lo stesso Iirismo, la medesima poesia, il consueto ardore inconfondibile di sempre. I suoi temi musicali spezzati, semplici, quasi naif, intensi e straordinarJamente lucidi vengono incessantemente riproposti e rimessi in discussione con un sapore costantemente rinnovato e libero. Il ,sax alto di Ornette possiede come sempre quella voce che è solo sua, umana, lancinante, tagliente come una lama sottile; mentre i suoi brevi interventi alla tromba e al violino servono solo per cambiare clima, per demistificare il ruolo dello strumentista, inteso in senso tradizionale. E poi ci sono i suoi musicisti... Si sa che Omette non ha mai rischiato troppo nella scelta dei compagni: si è sempre circondato di un limitato numero di uomini, a lui particolarmente vJcini per sensibilità e idee. Da Don Cherry e Eddie Blackwell a Charlie Haden e Dewey Redman, egli ha voluto accanto a sé in qualsiasi occasione pochi musicisti, ma perfettamente congeniali per sviluppare ed arricchire la sua çoncezione musicale. Questa volta, restati a casa Haden e Redman per altri impegni, è venuto con un gruppo pressoché inedito. Se si eccettua la partecipazione del vecchio amico batter.\sta Billy Higgins, gli altri erano tutti nuovi per Coleman. Malgrado questi ultimi ,non avessero un'esperienza diretta con la musica di Coleman, con il passare dei giorni e delle esibizioni pubbliche (ma provavano a lungo anche nella cantina dell'albergo milanese dove alloggiavano), cre- ,sceva l'affiatamento e alla fine il gruppo era soddisfacentemente rodato e omo geneo. Higgins offre un ap porto continuo e sottile, certamente meno geniale e vig0rr1s0 di quello di 'Blak well, ma senz'altro intelligente e calibrato, pur nell'apparente linearità. Il chitarrista 1ames \ Blood,. Ulmer è sicuramente l'elemento più sorprendente e interessante del nuovo ensemble: è la prima volta che Omette usa un chitarrista e ora ne ha trovato uno veramente originale, con quel suo fraseggio rotto e forte, espresso con una voce profondamente e intimamente Soul, del tutto complementare al discorso del leader. Davvero un uomo da tenere d'occhio! Il contrabbasso, nell'occasione, è stato affidato a Norris Jones, detto anche Sirone: uno strumentista pieno di energia ed entusiasmo, che non possiede certo la classe e la concentrazione di Haden, ma che tuttavia ha un rozzo e sincero feeling nero. Infine una percussionista, la dolce e sensibile Buncky Fox: non una virtuosa, ma una che dimostra un acuto e raffinato gusto coloristico. Peccato che sia dovuta tornare negli USA prematuramente, senza poter partecipare alle ultime esibizioni di Omette & Co. In conclusione, questa vJsita italiana di Coleman è servita per riconfermare, aldilà del mito cristallizzato della figura di « maestroprofeta», che la musica sua è ancora oggi viva e insostituibile e, anche se non appare molto cambiata da quella degli inizi, è tutt'ora attuale e densa di motivi d'interesse e di meditazione. Omette è già un classico, ma non un classico mummificato o ridotto ad icona, bens\ un artista che continua incessantemente a costruire e ad amare la sua musica, e a lottare per farla conoscere e farla inserire più umanamente nella vita e nella problematica di ogni giorno. Senza voler fare della retorica a tutti d costi, il caso di Omette è uno dei più macroscopici e vergognosi per denunciare l'assoluto disinteresse di chi ha purtroppo in mano la cultura e la sua diffusione, e trascura e boicotta l'apporto creativo e sociale più sincero, valido e costruttivo degli artisti più coraggiosi. Nel caso della musica, poi, quella afroamericana è stata sempre la più violentata, sfruttata e mistificata, ed oggi che viviamo un periodo di allarmante cns1 creativa, ignorare gente. del calibro di Omette Coleman, di Cecii Taylor, di Archie Shepp e di tanti altri è veramente delittuoso e sconfortante. Ma Omette ha promesso che ad ottobre tornerà: speriamolo! Giacomo Pellicciotti foto: Piero Togni
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==