Sembrano passati mille annì da quando i loro volti invadevano gli ingenui giornaletti di un mondo timidamente beat - lucidi fotocolors che li raffiguravano sempre insieme su panorami di stupida « bellezza », il Big Ben, una casa vecchia nella City - anni d'oro, il '66 o giù di Il, quando anche un vestito un po' strano faceva tremare le budella e loro, :i magnifici Who, più che strani erano travolgenti e bastardi, con quei giubbotti lunghi alla Union Jack che riempivano te nostre serate lunghe di Mods e di Rockers - sciocchezze? Eravamo affamati di « cose diverse », dove per diverso s'intendeva il non-estetico, il non-perfetto, il Mick Jagger che giocava a fare il bandito, l'Eric Burdon che si divertiva a mescolar-e gli umori cattivj - ogni tegola fuori dal tetto era motivo di gioia e di esaltazione, e come non amare i Who, allora, con quel piglio strafottente da « vogliamo il mondo e lo vogliamo subito! », con i capelli lunghi e i vestiti color immaginazione, con quella musica dura e metallica che si pr-endeva gioco delle ricamate figurine Beatles? Ma non è certo di nostalgia che dobbiamo narrare, e non siamo qui per impiantare una commemorazione: perché è il 1974, ehilà, e i Who sono ancora tra di noi, con la stessa musica e la stessa voglia, e nemmeno una ruga sul volto - chi è stato capace di fare altrettanto? Anche in tempi di crisi il loro suono va benissimo, anche in epoche di amore sperimentale il loro stile è nobile e degno: e tira sempre vento elettrico, dalle loro parti, e sale sale il godimento e il calore, per via di quella chitarra precisa e ruggente e poi la voce piena e carnosa, e Keith Moon che batte i tamburi da duerni!~ anni - vogliamo accorgerci che la musica è una turbina che macina ENERGIA? La violenza, l'eccitazione: questo è il vangelo fondamentale dei Who dagli inizi ad oggi, questo è l'insegnamento passato attraver10 so la sbornia psichedelica, il delirio « impressionistico», le buffonate del pop decadente, il ritorno del rock tale e quale. Ouadrophenia si ricollega a My Generation, il beat prima del Sergeant Pepper's abbraccia la nostra epoca smidollata: e in mezzo c'è una fetta intera di storie pop, in mezzo c'è la leggenda delle esibizioni live e l'invenzione dell'opera rock, tutto un mondo poco mitico e molto vero che realmente va,! la pena di ricordare. I primi Who che mi vengono in mente sono quelli magri e spauriti di My Generation, il millesimo complesso della « grande abboffata " beat, nella Londra 1965: ma le storie vogliono che prima del mio ricordo ci sia un anno denso di musica, per loro, e un 45 giri, « l'm the Face/Zoot Suit » composto e messo in orbita con il nome di High Numbers. Note in margine alla popolarità, piccoli appunti che non toccano la scena « mitica " e importante: il successo arriva solo un anno più tardi, quando il complesso abbandona la zona di Shepher's Bush, nel West londinese, dove tutti sono nati e cresciuti, quando un altro disco singolo, I Can't Explain/Bald Headed Woman vola altissimo per le classifiche 'inglesi consacrando il group in un'epoca affamata di nomi nuovi. I Who sono già nella formazione « classica », quella che per un miracolo d'equilibrio resterà intatta sino ai giorni nostri / Pete Townshend è alla chitarra, Roger Daltrey provvede alla parte vocale, mentre Keith Moon (batteria) e John Entwhistle (basso) dispensano il necessario supporto ritmico. E la musica è già perfida e viscida, tagliente, come un giorno sarà consueto ascoltare: un infuso d'erbe cattive che dà ragione al rock, a Bo Diddley, a Steve Cropper (•l'esecutore che più di ogni altro influenzerà Townshend), e un certo tipo di tradizione « nera », importante se non purissima. Nel duello tra Liverpool Sound e London Sound, nello scontro tra velluti alla Beatles e arsenico alla Stones, i Who rappresentano sin dagli inizi l'estremismo cattivo, il furore che fa battere in ritirata anche Jagger e la sua banda pazza: nessuno suona più « duro » di loro, 'in quei giorni caldi, nessuno interpreta con più vigore la «musica-sesso-perdizione » che è un po' il miraggio preferito di tutti gli antiLennon&Mc Cartney. My Generation, un 45 giri del '65 che davvero può fi. gurare tra le 10 più belle canzoni di tutto il pop, segna l'apice del primissimo momento del complesso, la conquista del potere: una generazione intera è mobilitata da quella musica, dalle folgori strumentali, dalle parole finalmente « giuste» (·« La gente cerca di metterci giù solo perché esistiamo / Le cose che fanno sono tremendamente fredde / Spero davvero di morire prima di diventare vecchio / Questa è la mia generazione, bimba»). I Rolling e i Beatles restano in cima alla montagna, sacri e intoccabili: ma sotto, nel-la selva dei mille gruppi inglese di quegli anni, i Who emergono con prepotenza, con il cocciuto rifarsi agli anni 'SO e alle dure vibrazioni, al suono velenoso che gli altri « grandi » (i Beatles di Rubber Soul, i Rolling di Aftermath) vanno già abbandonando. My Generation, il primo album, arriva qualche mese più tardi a render chiare le cose, mescolando il buono e il brutto dello stile Who. C'è ancora un clima di appiccicosa indecisione, c'è lo ossequio un po' deludente al long playing come « raccolta di successi favolosi » e basta: ma sotto la vernice dell'ipocrisia e della fragilità qualcosa si muove, e le chitarre gracchianti riescono a dettare brani come Out in The Street, come La la Lies, come The Ox (qualche anticipazione di Jimi!), fa. cendo prillare i centri nervosi oltre le solite « buone emozioni ». Solo Kids Are Allright, in tutta la fiera del disco, dà ragione ai merletti della famiglia McCartney, simulando con buona volontà corist1ca le rilassanti atmosfere del mondo Beatles: mentre la timida e manieristica veI'Sione dell'I Don't Mind di James Brown .11.:arsoamore del \.:<Jmplesso verso il blues più sincero, <.JUellodi Muddy Waters, dJ Howlln' Wolf, di Freddie King, quello che sta alla base del rok tanto utile alla formazione. Ma non importa: anche sen· za il bacio da innamorati al Chicago Sound, anche senza « quel fottutissimo blues » il suono riesce a di• menarsi per bene, facendo capire che per il complesso c'è un futuro dolce e colo• rato, ben diversamente da quanto lasciano intendere le miserabi-li opere di quasi tutta la restante beat era. Sulla scena, poi, ogni cosa è ancor più precisa; e la durezza, l'amara vena dello stile trovano giustificazione e forza al di là dell'effimero e dell'occasionale. L'esibizione è un momento di sfogo, di raptus collettivo: e i gesti per far salire il calore si sprecano, i trapianti cattivi sono dietro ad ogni angolo. Keith Moon torce le pelli alla percussione, Pete Townshend morde in cuore la chitarra anticipando con sadico piacere qualcosa del meraviglioso « teatro Hendrix »: e quando alla fine del concerto gli strumenti vengono distrutti fu. riosamente, quando la Fender del leader è presa a calci e strattonata senza pietà, si tocca l'orgasmo dell'happening, e la musica è travolta e messa in mano allo « spettacolo di vita», indubitabilmente. Trovata scenica, trucco di bassa lega? Forse. Ma perché non vedere tutto nell'ottica della rabbia e della disperazione, perché non scorgere nel gesto velenoso ed estremo la risorsa finale del musicista consapevole e pure impotente, che consuma nell'isterla la propria voglia di mon• do nuovo? Eppure, nonostante questi lucidi presupposti, nonostante la bellezza scenica e l'impeto di stile, il suono Who sembra accortacciarsi in fretta. Il 1966, secondo anno della loro glqria, regala infatti parole scialbe e momenti di stanchezza, om• bre pesantissime: almeno su disco, il rock inciampa, lo stile perde foglie, dando os• sigeno insperato al beat Ii· verpooliano, quello morbido e carino, quello appena stuz• zicante. A Quick One, secondo DP, affoga nella mi• ·seria e nel terrore, stra ciando le carte lucidissim del passato prossimo, co rendo a passi veloci s
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