iersecano liberamente fino a confluire nella polifonia del canto a più voci. L'eroe, però. si differenzia dalle precedenti ballate per _molti asp~tti._ Prima di tutto sI sente pIu viva e presente l'influenza del materiale direttamente popolare raccolto in questi ultimi anni da Giovanna Marini nell'Italia centrale e meridionale; influenza che riguarda soprattutto i modi musicali sia melodici che ritmici ma che con. sidera anche la tipica epicità della poesia popolare. Questo avvicinamento alla cultura subalterna italiana viene anche sottolineato dal superamento del solismo, caratteristico delle altre ballate, abbandonato per intraprendere un discorso collettivo e corale. Assistiamo. quindi, all'inserimento di altre voci, di percussioni, di un clarino, di chitarra e basso elettrici. L'apporto di questi musicisti (Elena Morandi, Canzoniere del Lazio e Alberomotore) risulta fondamentale. Ritroviamo nell'Eroe parte della forza comunicativa e della trascinante teatralità di Fare Musica. La ballata. paragonata alle altre, acquista in ampiezza e varietà sonora, e, senza perdere quel tono scarno ed essenziale tipico della musica popolare, si arricchisce dell'apporto di altri musicisti, di altre esperienze e sonorità rapportabili sempre e comunque in modi diversi, alla espressività popolare. Quel che ascoltiamo è una delle cose migliori di Giovanna Marini, sicuramente uno dei frutti italiani più interessanti di questo parco 1974. La seconda facciata, invece, per quanto decisamente bella è più usuale e meno innovatrice. Sei canzoni raccolte nel sud, sei canzoni che rivelano tutte le meraviglie nascoste della musica popolare contadina: dall'assoluta originalità delle armonie, alla poesia sempre forte e vitale dei testi, ai modi espressivi e agli impasti vocali del canto a due interpretato con rara intensità da Giovanna Marini insieme a Elena Morandi. Per la finale del disco è una versione corale di 'Ntonuccio canto funebre pugliese, in cui torna il Canzoniere del Lazio cantando, e suonando le percussioni e il violino. Questa canzone final::., per quanto risalti in confronto alle altre per la forte drammaticità e per la potenza e aggressività del crescendo del canto di gruppo. fa notare ancora di più la stupenda semplicità sonora e l'essenzialità delle altre canzoni dove spesso si rinuncia a qualsiasi tipo di accompagnamento per affidare al solo timbro caratteristico delle voci di Giovanna Marini ed Elena Morandi ogni compito espressivo. p.m.r. PAUL SIMON « In Concert: Live Rhymin' » (CBS) Ed eccoci alla trecentoquindicesima versione di The sound of silence; a quanto pare Mr. Simon non ha intenzione di smettere di propinarci il suo passato in tutte le salse. Oggi è il turno del soul; quando sentiremo « Hello darkness my ol' friend » su ritmi ucraini, o cantata alla maniera delle mondine di Vercelli? Comunque, andiamo con ordine. Simon ritorna con un nuovo L.P. dal vivo riproponendo vecchi successi quali il suddetto, The Boxer, Bridge Over Troubled Water, Homeward Bound e altri. Niente di nuovo dal punto di vista compositivo; rivoluzionamenti (?), invece, per quel cl1e riguarda la esecuzione live. Nientepopodimenoche The Jessy Dixon Singers, ovvero i coretti molto gospel! di cantanti nere piuttosto cicciottelle, un organo elettronico alla Percy Sledge (e chi se lo ricorda più?). un basso e una batteria che in fantasia potrebbero essere sostituiti da un metronomo. A dire il vero Simon non ci ha mai presi in trasporti bacchici, ci ha lasciati sempre un po' freddini nelle sue dolcezze languide, e nel suo essere tanto bravino e pu litino; ricordo che piaceva, con l'amico Garfunkel, anche a tutte le nostre mamme. Tirem innanz, come diceva quel tale. Ma ora ha raggiunto il colmo, bianco bianco con la manina tesa a dire la vecchia ipocrisia: « That's Soul ». Si salvano, nel disco. esclusivamente quei brani suonati da solo alla chitarra o in compagnia degli Urubumba, un quartetto stile America Latina, Perù o Bolivia in particolare, armato di flauti, percussioni e strane chitarre tipo balalaika. Anche in questi brani dolcemente ascoltabili, comunque, niente di nuovo o di valido, tutto scontato e risaputo. p.m.r Dischi d'importazione TODD RUNDGREN « Todd » (2 LPs) (Bearsville) Todd Rundgren è uno dei personaggi più interessanti dell'ultima ondata di pop, quella appesa alle ciglia finte di David Bowie, al mondo metallico-decadente di Bryan Eno, ai tradimenti e ai ritorni di Zappa, di Dylan, di tanta altra gente. Non è un buffone, non corre rischi più grandi di lui santificandosi sulle pagine dei « giornali che contano»: è un musicista serio invece, che pur tra ambiguità e colpi di tosse insegue una personale strada in cima all'esperienza sonora. Non sono certo tra coloro (i francesi soprattutto) che già vedono nell'uomo un profeta per i tempi difficili, il condottiero e il «maestro» per i magrissimi anni '70: ma pur con qualche dubbio e dolci sospetti non posso guardar male all'artista, preso da innamoramenti e convulsioni al confine di strani territori musicali. Questo Todd è il suo ultimo lavoro in ordine di tempo, un doppio album che salta tra mente e fisico con grazia e cattiveria, mostrando i mille volti dell'uomo, l'ironìa, la malvagità, la follia, come certo il precedente A Wizard, a True Star non aveva saputo fare, chiuso a chiave nell'intima vanità e nella goffagine di un timido collage. Lo stile è aspro, rugginoso, la voce della chitarra urla su per i muri del disco in tutta la sua durata: ma l'insegnamento hard è solo la scorza, la prima pelle, se è vero che poi tutto è trasfigurato e mandato in aria, in un gioco di allegoria-magia nera che sorprende e sgomenta prima ancora di affascinare. Siamo in una dimensione strana di angoscia e di paura: un mondo meccanico e pieno di fumi, un Universo slabbrato e con rughe addosso, dove la violenza strumentale è regina e I'« effetto sonoro» gioca sui fantasmi, sulla freddezza, sul crollo emotivo. Un viaggio scuro, insomma, per nulla celestiale: e tutto è complicato, sorprendente, per quel!' alternarsi di brani non cantati e pièces alla Grand Funk e pallottole da anni '30 che rende nobile e degno il lavoro. Rundgren è ancora acerbo, troppe idee hanno il gusto effimero della «trovata» e del giochetto in studio: ma c'è una voglia di assurdo e di impossibile che ben fa girare la musica, un desiderio di prendere il mondo alla collottola passando per gli occhi bistrati di Lou Reed. in una parodia appiccicosa della vita quotidiana. Tra i brani, Drunken Blue Rooster è tra le cose migliori della psichedelìa traviata dell'artista, una sarabanda di cose glaciali alla Kraftwerk: e poi ci sono Heavy Metal Kids e King Kong Reggae, rock esasperati e pazzi di libidine, già alle soglie della dissoluzione. Ma le sensazioni più infide vengono dai minuetti quasizappiani, dai voli maliziosi nel cuore dell'ironia: Useless Begging h;i id lee ubriache da anni '30, e Lord Chancellor's Nightmare è un piccolo capolavoro di kitsch preso per le sottane, con la voce insu Isa e il pianoforte annoiante. come in uno squallido film televisivo perso nel cuore del ricordo. r.b. MCCOY TYNER « Song For My Lady / Song of The New World » (Milestone) E' giunta l'ora che anche McCoy Tyner esca dalla sparuta cerchia degli addetti ai lavori e arrivi ad un pubblico più numeroso e disponibile. Non si tratta solo di un tardo riconoscimento dovuto alle capacità di un artista ricco e geniale come pochi, ma di un necessario e giusto tributo a uno dei musicisti più importanti e creativi degli ultimi anni. McCoy, insieme a Bill Evans (che però oggi è irrimediabilmente avviato sulla strada del tramonto). è il modello vivente cui si sono ispirate legioni di giovani pianisti che oggi vanno per la maggiore, alcuni con pieno merito, altri con meno validità. Da Herbie Hancock a Keith Jarrett, da Joe Zawinul a Chick Corea, da Geor_ ge Duke a Stanley Cowell (ma l'elenco non si esaurisce qui). tutti hanno preso qualcosa dallo stile di Tyner. Dicevo che non si tratterebbe soltanto di un riconoscimento accademico o di stima a posteriori verso un artista magari un po' collaudato o invecchiato. Anzi I A parte il fatto che McCoy è tutt'altro che vecchio, anche anagraficamente parlando (ha 35 anni). è proprio in questi ultimi anni ch'egli sta dimostrando una maturità e una continuità mai riscontrate prima. Chi l'ha potuto ascoltare la scorsa estate dal vivo al festival di Montreux, sarà certamente rimasto allibito di fronte alla grinta, all'autorità, all'ispirazione, alla potenza dimostrate da Tyner, che alla testa di un eccellente quartetto, ha aggredito il suo pianoforte (acustico), sprigionando un'energia degna solo di un grande maeSt ro. E dire che quando era uno dei pilastri dell'ormai leggendario 63
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