BAND: Moondog Matinée (Capito I) Era da tempo che non ascoltavo più la Band. da Stage Fright almeno, da quel folk nobilissimo ed ampio che cercava di evocare lo spettro del Bob Dylan più maturo, quello di Bionde on Bionde, dei Basement Taµes, del finale di partita, insomma. Poi oggi mi capita in mano Moondog Matinée, l'ultima fatica. la risposta ai tempi duri che corrono: e mi accorgo che tanta acqua è scorsa dai colori antichi e dall'aria fresca degli anni '60 e che in fondo anche per la Band è ora di voltar pagina, di considerare tutto chiuso, finito. sotterrato. Pochi d~chi sono insu~i come questo, poche opere sono stanche e vigliacche in egual misura: perché qui tutto è prodotto e nulla creazione, e la logica del vinile domina da un capo all'altro del disco. Lo stile è un rock molliccio e blasfemo. una musica leggera suadente e patinata, un infuso di misere cose che brucia in gola e si ferma allo stomaco: ed è persa per intero la saggezza antica. la capacità di finder stili ed emozioni, la bella superbia pianistica, il richiamo al gospel. alla tradizione, al ritmo del passato. Nulla è lasciato alla fantasìa, tutto finisce in bocca al più nero artificio: e si fatica a credere che questi musicisti siano gli stessi di Music From Big Pink, gli stessi 58 VZ/IK/JP di I Shall Be Released, quelli che solo -pochi mesi addietro sparavano degne cartucce strumentali sul Planet Waves del Dylan ritrovato. Inutile addentrarsi nella selva dei brani, tutti scialbi e fuligginosi: basti dire che Ain't Gol No Home e Saved sono quelli che più riportano al rock pri- ' migenio, pur con esasperazioni e mòrte nel cuore, che A Close is Gonna Come è l'unico brano morbido (e mieloso). e che Third Man Theme è la vetta del kitsch del disco, con quell'aria strapaesana da film di bassa lega che mai avremmo immaginato in bocca a Robbie Robertson e -compagni. r.b. GRATEFUL DEAD Skeletons from the Closet (Warner Bros) I Dead spolverano gli abiti di un tempo, togliendo le palle di naftalina del passato leggendario, quello con profumi di San Francisco libera e aromi di dolce consapevolezza. Skeletons from the Closet è un best degno e ben curato, una composizione che ruba qua e là dal' più matura degli stili Dead, saltando dai fiori acidi di Saint Ste~hen alla dolcezza campagnola di Sugar Magnolia, giù per i viali dolciamari delle esperienze qel group. A differenza di un'altra antologia apparsa di recente negli Stati, Skeletons on a Cupboard, quest'album tenta un approccio al lato chiaro dell'ispirazione Grateful, rinunciando molto al rock e alle impennate selvagge per far posto al suono dolce, ai colori pastellati. Così il primo periodo del group (quello degli esperimenti con la droga, del suono orgasmico e visionario) è tagliato fuori con cura: e alle sole Saint Stephen, Go'.denRoad e Rosemary spetta il compito di raffigurare le prime smanie di Garcia e soci, con lo stile metallico e pieno di rughe e tutto un muoversi strumentale ai confini del sopportabile. Rifulge invece l'ultima fetta di storia Dead, quella che da Workingman's Dead corre ai giorni nostri, la « epoca acustica», insomma; e in effetti le cose migliori del disco vibrano in questa direzione, da Uncle John's Band con calore e compattezza mai eguagliati a Sugar Magnolia con gusto di ribes, a Casey Jones piccolo gioiello di amore country. Le uniche vibrazioni spinose. le regalano Turn on Your Lovelight (il vecchio e terribile hit di Pigpen!) e One More Saturday Night: piccole oasi nel mare di soffici vibrazioni che il complesso ha voluto e saputo regalare negli ultimi quattro anni. Nulla di nuovo, insomma, se non un tuffo nel passato alla ricerca di emozioni e figure già trovate prima: e le luci e le ombre non cambiano, ieri come oggi, con un semplicissimo a volte un po' irritante, uno sguardo troppo compiaciuto alle forme leggere ma un fuoco stilistico, una purezza di idee e risoluzioni che non può non affascinare e stringere l'anima. r.b.
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