Muzak - anno I - n.07 - maggio 1974

King, asettici e sovente zuccherosi). La sua vena poetica è piena di umori e di immagini tutt'altro che disprezzabili o scontati; la sua voce è molto più ricca ed intensa: la sua musica, pur se eccessivamente semplice ed elementare, non è mai volgare o insulsa. Ma, .alla fine, anche se i risultati artistici si mantengono su un livello di onesto e ben calcolato artigianato, succede che l'ascolta- ' tore più sensibile si stanca progressivamente e perde interesse. Anche perché va esaurendo quel sapore della novità che lo aveva attratto all'inizio e che, in casi del genere, è necessario per mantenere vivo il fuoco dell'attenzione verso un così debole tipo d'artista. I primi tre LP di Stevens per l'lsland rimangono ancor oggi esemplari per la loro delicata e, allo stesso tempo, intensa vena creativa, e a proprio modo restano sicuramente i vertici più alti ed accettabili. Con il quarto « Catch Bull At Four » si avvertono i primi sintomi dell'involuzione, anche se la stampa allora parlò in génere d1 una completa riuscita. Con , Foreigner », infine, il canto di Cat diventa pesante, logorrico e paurosamente stereotipato, facendo tel')1ere una definitiva eclissi sul piano invettivo e. interpretativo. Ma ·stevens pare abbastanza furbo ed intelligente per capire i suoi mali e corre ai ripari... Questo suo ultimo album si rifà chiaramente ai primi tre fortunati lavorilsland, riacquistando parecchia della grinta perduta o annacquata nel LP precedente. Cat si è affrettato a richiamare all'ovile i collaboratori di prima, come Il chitarrista Alun Davies o il produttore Paul Samwell-Smith, la sua voce ha ritrovato un po' di convinzione e di incisività, le canzoni sono di buon livello, scorrevoli e pulite (in particolare «Musica», «Oh Very Young • e « Ready »). pur se certi coretti e arrangiamenti sono un po' invadenti e sovrabbondanti. Resta il dubbio di fondo sulla fragilità di una simile visione, limitata e giocata sul filo dell'inconsistente e dell'effimero. Sicuramente l'autorità e il graffio di un Bob Dylan o l'allucinata follia del miglior Tim Buckley si impongono ancor oggi su cento Cat Stevens. Ma che discorsi; con loro siamo a livelli ben differenti! g.pe. \ FRANCESCO DE GREGORI Francesco De Gregari (RCA) Francesco De Gregori ritorna con la scatola dei sogni, e ci racconta dolcemente i suoi pensieri. Non si tratta più di Alice, Irene, Hilde o Marianna, il suo mondo ora è• pieno di strani amici, più o meno passati, di donne che sfuggono senza approdare a una funzione precisa, di rapidi flash che illuminano la madre o brevi attimi, in qualche modo familiari, di vita passata o fuggita. Francesco De Gregori canta, cosciente che Ja sua musica è una semplice occasione per dire delle cose, per parlare e raccontare; è inutile cercare, quindi, aifficili e nuove costruzioni compositive, tutto resta nella più ricercata e amata semplicità, sul piacevole, la musica è tenue, a volte troppo scontata, non ha mai movimenti duri e impetuosi, le note si ripetono calme, non cercano le strade del futuro. Francesco De Gregori ha scelto di recitare le sue poesie cantando, come forse facevano i lirici greci, e come propone Lawrence Ferlinghetti con i Messaggi Orali. La musica viaggia lenta senza scosse con alcuni momenti veramente buoni e altri più raffazzonati, ma sopra di essa fioriscono le parole, le immagini, i colori e tutto l'intricato mondo di Francesco De Gregori. Le sue poesie sono forti, contrastano violentemente con l'intimismo della musica; la fantasia corre ben oltre i soliti amorazzi a cui ci hanno abituati i languori del cantautore italiano medio; i personaggi che nascono sono sfuggenti, rna sufficientemente delineati per partecipare alla configurazione del vero protagonista che è l'autore stesso. Siamo molto lontani da qualsiasi « cuore messo a nudo » di baudleriana memoria, ma l'intento è simile. in Francesco c'è la volontà di scoprirsi, di fare della canzone un modo di realizzarsi nel comunicare con gli altri. E ci sono certi momenti. ancora troppo rari, in cui il bersaglio (noi che ascoltiamo) viene colpito, certi momenti in cui si arriva a partecipare direttamente del mondo di Francesco. E' il caso soprattutto di Cercando un altro Egitto, la canzone meglio riuscita dell'album, in cui (se si toglie il finale scontato dell'incubo riuscito) la strada di De Gregori assume tinte oriQinali, lasciando perdere le varie Sad Eyed Ladys, e dove la musica raggiunge, nei toni quasi recitati, l'intensità che altrove, troppo spesso. si perde in melodie scontate e occasionali. Anche Bene offre momenti pieni di forza espressiva (pecca'" .,uegli orrendi archi di sottofondo!). e. come già in Cercando un altro Egitto, le poche immagini nelle quali compare la madre sono le più riuscite, le più precise e sintetiche. Da citare. ancora, Niente da capire, in cui la musica assume forme più precise e vivaci e si armonizza perfettamente con le parole molto tristi e ~ure dove la rassegnazione di Francesco diventa particolarmente viva e sentita .e dove le immagini di Giovanna perdono il sapore vago tipico delle descrizioni delle altre donne. per colo. rirsi di tinte più forti e precisa, meno impressionistiche. Comunque, ciò che.differenzia Francesco De Gregori dagli altri cantautori italiani, è che lo si ascolta volentieri, che non dà fastidio, che non scoccia nemmeno quando la lezione di Dylan e Leonard Cohen si fa troppo evidente (Chissa • dove sei?) o quando un certo surrealismo delle parole pare un po' forzato o la piattezza della musica pare sconfinare nel miele decadente e vittimistico. p.m.r. BACK DOOR 8th Street Nites (Warner Bros) Quanti modi esistono 1:li ricuperare il blues? Quanti «rivisitatori », ambiziosi o umili, ruvidi o raffinati, geniali o pasticcioni, sono penetrati a profanare il suo guscio infuocato? A volte sembra soltanto un recipiente vuoto e devastato, come una sala alla fine di un tumultuoso concerto. Eppure, ogni volta che la proposta geniale di qualche eretico cultore o lo sprazzo di luce viva di un onesto mestierante ci aggredisce i timpani, quella squallida impressione svanisce e riaffiora la pulsante, eterna vitalità del vecchio caro blues. Purtroppo in questo secondo album dei Back Door, questi gioiosi momenti sono a dir poco rarissimi. Tutto il resto è mero titillamento della parte (6 particella) nera che pretende di giacere nel fondo di molte anime bianche. La ricerca musicale di questo trio, prodotto dall'onnipresente Felix Pappalardi, agonizza sperduta nelle labirintiche frattaglie di un blues-rock che strizza lo occhio al jazz e finisce con l'approdare ad una serie di appunti discontinui e ad un clima complessivo molto funky: ci sono parecchie cose che sanno solo di maniera, altre interessanti ma .sparse qua e là. al di fuori di un discorso culturale precisamente strutturato. E' proprio nell'approssimazione della formula che spesso affondano le oneste qualità dei tre musicisti: Colin Hodgkinson è cantante e bassista di un certo rilievo. ma forse non ancora sufficientemente orientato allo interno di questo fragile organico per poter dare il meglio di sé. Tony Hicks, il batterista. è soltanto un gregario (tanto che lo stesso Pappalardi sfaccenda di tanto in tanto tra le percussioni minori. tentando di ovviare alla povertà ritmica). Quanto a Ron Aspery, (polistrumentista di indubbio interesse. specie al flauto e al sax alto. manca spesso di chiarezza di idee e condi7iona il risultato finale, alternando momenti di pretenziosi agganci all'avanguardia e trovatine assurde (come la caricatura del vecchio boogie al piano elettrico). sprazzi di una certa intensità lirica e pacchianerie da night club. « Lining Track », «Roberta», «Walking Blues» sono comunque i brani più ricchi di grinta e- immediatezza; il lento « Forget Me Daisy » e « lt's Nice When lt's Up » quelli che si staccano di più dagli schemi di maniera. p.d. \ 57

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