Muzak - anno I - n.07 - maggio 1974

thrie cantava nei quartieri popolari per i lavoratori di ogni genere, posto e razza, nelle città di baracche, nei ritrovi politici, nei programmi radiofonici diffondendo il suo messaggio sociale di uomo della strada, di proletario. Denunciando il fascismo e la violenza dei comitati di vigilanza che manganellavano e uccidevano gli operai in sciopero, irridendo la « democrazia da libro di novelle», cercando di stabilire un rapporto umano e politico con chi ascoltava o cantava con lui, riuscì a portare le parole dei comunisti americani dappertutto, raggiungendo chi non aveva i soldi per i libri, chi non sapeva leggere, chi viveva nell'abbandono delle Hovervilles, o aggrappato, in perenne corsa, a un vagone. La voce era meglio di qualsiasi parola stampata, la canzone si imparava prima di qualsiasi discorso, la poesia colpiva più di qualsiasi comizio. Guthrie fu un poeta. Le sue canzoni sono scarne, dolci e pungenti come il suo viso, forti «saporite» e secche, capaci di comunicare con chiunque abbia orecchie per intendere, piene di profonda semplicità e di spontaneo antintellettualismo, cariche del desiderio di cantare per il popolo e di essere da questo capito, di imparare per poi insegnare. Una chitarra, un'armonica, tanta forza interiore. « Gli occhi socchiusi, una tensione come di chi sta sul chi vive dietro l'espressione pigra che è propria di un certo modo americano, dal mandriano al camionista, dal musicista jazz al barman » (Kenneth Allsop ). La forza, la tensione e l'intensità che Woody possedeva gli permisero di mettere a punto uno stile nuovo appreso dai montanari: il talking blues. Una sorta di oratorio, un blues (che strutturalmente non è blues) parlato, fatto soprattutto di ironia e feeling, il simbolo del folksinger americano senza bisogno di estetismo dietro cui nascondersi o di abbellimenti superflui. Tutti i suoi dischi, nonostante le registrazioni di fortuna, quasi sempre live e in diretta, rispecchiano la bellezza del sound di Guthrie, sono dischi che hanno una presa immediata, in essi si sente la necessità del fare musica: mai una par"la e una nota inutile, tutto è finalizzato al comunicare, al messaggio politico e umano. Ma c'è un disco in particolare che ci porta la meravigliosa intensità di Guthrie, il disco che raccoglie le ballate sulle tempeste di polvere in Oklaoma: Dust Bowl Ballads. Sono le storie della « sua » gente, il momento più intimo dell'opera di Guthrie: la distruzione di tutto, la negazione della vita da parte della polvere, dei padroni e dei banchieri. E' la grande ballata della gente che deve fuggire e che si ripete in continuazione la polvere non mi può uccidere, Dust can't kill me. E' il canto del vagabondo che sulla strada non cerca la libertà o una mistica nuova identità; è il canto di chi è esule, cacciato dalla sua terra che muore, in cerca, verso l'illusione del paradiso californiano, di un lavoro che gli permetta di sopravvivere. Non entrerà mai in California, il vagabondo è indesiderato, si consiglia la gente per bene di mettere del veleno nel cibo che va elemosinando. Tutti vogliono che l'okie e l'arkie muoiano, ma il ritornello è sempre uguale: la polvere non mi può uccidere, e la polvere diventa il proprietario terriero, il poliziotto, lo sceriffo, il potere economico e politico in genere. La volontà di sopravvivere è però più forte e sottile della polvere; un vecchio canto hobo diceva: « Sapete quel che prova un hobo? I La vita è una sequela di cose a rovescio / Questo è il canto delle ruote». Le Dust Bowl Ballads sono un capolavoro unico, inarrivabile; pur essendo dense della tristezza dello sconfitto, del diseredato dalla natura, in esse non esiste un momento di rassegnazione, sono un inno d'amore per la terra, per quel popolo di uomini che, rifiutati dal mondo, vi si attaccano sempre più fortemente e vogliono vivere, solo vivere. L'intonazione, pur nella partecipazione profonda, è sempre epica, mai drammatica, le parole restano robuste, semplici, a volte piene di incredibile ironia frutto dell'incontrollabile speranza di fondo, del sogno socialista, dell'uguaglianza rincorsa stille autostrade, sulle ferrovie. In Tom Joad (la lunghissima ballata che prende spunto dal' romanzo Furore di Steim- •beck) il giovane che continua la sua fuga di hobo braccato dai poliziotti, dai padroni e della società stessa, dice alla madre, prima di partire ancora una volta, il suo credo: « Dovunque i piccoli bambini hanno fame e piangono / dovunque il popolo non è libero I dovunque gli uomini lottano per i propri diritti / è là che andrò, mamma, è là che andrò». Ed è quello che farà Guthrie per tutta la vita fino al ricovero in ospedale e alla lenta agonia che lo terrà immobile in un letto per molti anni. Muore il 3 ottobre del 1967: « E' una strada estremamente dura quella che le mie mani hanno zappato / e i miei piedi hanno viaggiato per un'infuocata strada polverosa / ... / Noi veniamo con . la polvere e ce ne andiamo con il vento ». Paolo M. Ricci 37

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