Muzak - anno I - n.07 - maggio 1974

Ralph Towner (foto Silvia Lelli) Ardzie Shepp (foto Silvia Lelli) C'è stata forse anche un po' di sfortuna nel contrastato iter organizzativo di questo festival, nei forfait di Omette Coleman e Gato Barbieri, nelle difficoltà di viaggio che hanno fatto spostare in extremis l'apparizione di Shepp dalla seconda alla terza serata. Ma non si può imputare alla sfortuna la cocciuta imprevidenza di organizzatori che trasferiscono precipitosamente la terza serata dal prezioso teatro Don'.zetti al cassone acusticamente indegno del Palazzetto dello Sport sotto la pressione di una affluenza di pubblico assolutamente non calcolata; che portano nomi nuovi e di non facile comprensione per poi farli suonare due o tre pezzi; che affiancano con leggerezza nella stessa serata prodotti troppo diseguali pur di offrire un cartellone strapieno (si immagini che alla Scala proponessero insieme Lehar e Beethoven); che insistono sul!' ineluttabilità della presenza italiana ma non faranno nessuno sforzo poi per tentare almeno di uscire dalle solite scelte, di una sclerosi umiliante e persino immeritata. Alla fine, di un programma con molti nomi e parecchie ambizioni è rimasto soprattutto il grosso brivido che nel finale della prima serata ci ha dato la breve apparizione dell'Art Ensemble of Chicago. Il quintetto, con Lester Bowie (tromba), Roscoe Mitchell e Joseph Jarman (sassofoni), Malachi Favors (basso) e Don Moye (batteria), si è confermato una delle poche voci originali e vitali delia musica afro-americana d'oggi. Suonano insieme da pilrecchi anni ed hanno al loro attivo una notevole (anche se piuttosto ignorata) produzione discografica, ma erano al primo contatto con il pubblico nostrano e meritavano una esibizione più lunga e consistente. La loro musica, spietata e fiammeggiante aggressione dei vecchi miti, non è mai provocazione gratuita, neppure negli orpelli scenici, nei clowneschi travestimenti. E' critica feroce e creativa, è rifiuto di un ruolo servile, quello di pittoreschi ambasciatori della « gran cultura » d'Amerika. Alla luce della loro esibizione, suonava ancor più comico lo sforzo di chi, per evitare l'irritazione dei conformisti, aveva anticiparo che la musica del AEC non voleva avere alcun significato politico. La politica aveva già fatto capolino nella precedente esibizione del sassofonisti\ norvegese Jan Garbarek (ben coadiuvato dal pianista Bobo Stenson, dal batterista Jon Christensen e dall'ottimo bassista Palle Danielsson). Garbarek infatti ha concluso con un brano in cui il suo apprezzato ~irismo scandinavo assumeva tinte alla Gato, riprendendo le note della ballata del comandante Che Guevara: un bel colpo sul piano emotivo, che strappava molti applausi, ma non cancellava le perplessità sul temperamento di questo musicista, assai più raffinato e personale sui dischi che non sulla scena. Tra Garbarek e l'AEC c'era stata la patetica esibizione di Kenny Clarke con uno sgangherato trio: il vecchio lupo che aveva lasciato le sue impronte in tante storiche sedute, dal bop del• dopoguerra fino alle primissime incisioni di un Modem Jazz Quartet non ancora fradicio di melassa settecentesca, non era a Bergamo: dietro la sua batteria c'era soltanto un'apparizione spettrale quanto inutile. •D'altronde l'apertura della seconda serata non è stata degnata neanche di apparizioni spettrali: dall'Amleto si è scivolato nella pochade, nella seduta spiritica più goffa e ciarlatanesca in cui Carlo Loffredo e soci hanno tentato inutilmente di rievocare le glorie di New Orleans. Al tradizionale pretestuoso ha fatto seguito l'attualità velleitaria: sei pianisti europei capitanati da George Gruntz si sono esibiti in un ambizioso quanto insignificante « piano conclave», dove anche le idee buone erano sepolte nel gran ribollire di tastiere prevalentemente elettroniche. Sotto molto fumo si cuoceva un minestrone insapore e anche la noia del pubblico, che forse già meditava qualche vendetta. E l'occasione è venuta la sera dopo, con il linciaggio acustico del Palasport. Sbarazzati senza pietà i pesci pie-, coli (Banda ùel Conservatorio di Bologna e la cantante Karin Krog) è toccato a Ralph Towner e ad Archie Shepp, applauditi molto (forse per la rilòpettabilità dei loro nomi), ma indubbiamente a disagio. Towner è uno dei più interessanti chitarristi dell'ultima leva, ha un ottimo gruppo (con Glen Moore al basso, Paul Mc Candless all'oboe e Collin Walcott ai tabla) e la sua musica, una sintesi assai cameristica di jazz e moduli orientali, è piuttosto fredda ed estetizzante; comunque per essere al meglio richiede l' acustica di un teatrir.o di lus• so. Quanto a Shepp, egli è un vero grande del jazz, un maestro che non ha mai amato l'esibizione da primadonna. Invece, in quel contesto, con lo squallido contorf'\O di accompagna tori raffazzonati alla meglio, vi è stato quasi costretto ed è apparso stanco e svogliato. Forse è davvero sul viale del tramonto, ma non si può portare come orova questa sua disgraziat.. e innaturale apparizione. Gli ap. plausi comunque sono piovuti sul suo malcelato disagio: érano quelli di migliaia di ragazzi che lo scoprono ora. Ma la loro ingenuità non tragga in inganno: sono loro a far pesare la bilancia del ,iazz dalla parte del futuro, a fare la fortuna delle manifestazioni musicali, ma anche a dettare la fine delle vecchie formule. Peppo Delconte 17

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