Muzak - anno I - n.06 - aprile 1974

rità anche troppo funerario. C'è nell'atmosfera travolgente di questo disco un po' troppo puzzo di cadavere: per le cupe degradanti tematiche, per l'interprete (ombra sontuosa e macabra di un grande passato), per il rock forse e per il suo pubblico (specie quello angloamericano). così supino alle manovre dell'industria e così sicuro di essere sempre testimone di una storica festa della musica. Lou Reed è stato quello che è stato; anche oggi è qualcuno, ma non nella stessa dimensione. La sua popolarità d'oggi premia forse in ritardo l'oscura grandezza di ieri: in fondo ricorda un po' la vecchia usanza « sanremina ». di far vincere il vincitore morale (si fa per dire) dell'anno prima. Tutto questo ha creato molta confusione. Lou Reed da solo non è mai stato i Velvet Underground: il solo « Berlin » può vantare un suo spazio originale. ma non è esattamente lo stesso discorso. Il Reed di oggi - neanche nei momenti migliori - ha la stessa scarna ma adamantina rudezza. e forse oggi non la avrebbero più gli stessi Velvet. Indubbiamente il rock decadente è nato allora (già nel lontano '64, prima ancora che il genio di Andy Warhol desse un volto definitivo al gruppo). E' nato nella depravata aggressività, nei suoni contorti e ossessivi dei Velvet e soprattutto in quella voce di snervato e marcescente alter ego del primo Dylan. E resta ancor tutto da stabilire se - anche in rapporto al clima sociale di quegli anni il decadentismo corrosivo e quasi espressionista di Lou non era più significativo dell'enfasi acida del gran menestrello. Di tutto questo, ora che il rock decadente è diventato un affare. non sembra accorgersene neppure lo stesso Reed, se sente il bisogno di ricostruire il suo personaggio, mediandolo attraverso l'influenza di un David Bowie. Lo si può notare anche in questo album live. che contiene in tutto sei brani dilungati fino all'eccesso per discutibili ragioni di platea: tra questi alcuni classici di Reed (« Sweet Jane », « Heroin », «White Light/White Heat») e un pezzo forte da Berlin ( « Lady uay »). L'interpretazione vocale è sempre di alto livello, ma il contributo degli accompagnatori non convince affatto: la ripetitività ritmica dei Velvet è cancellata e al suo posto un rock gonfio e sontuoso crea uno sfondo anonimo alla voce, pieno di lungaggini stucchevoli e manierate. Le colpe maggiori sono da attribuire ai due chitarristi (Steve Hunter e Dick· Wagner), addirittura insopportabili nel commentare i diabolici fraseggi sospesi di « Heroin » o le cupe cadenze cabarettistiche di « Lady Day ». Ma è in fondo un modo per confezionare il prodotto di un ex-maledetto e rendere la sua allucinata disperazione un giocattolo in serie. p.d. GENESIS «From Genesis To Revelation » (Decca) Raggiunti ormai tutti i più consistenti traguardi (di popolarità...) cui un gruppo può ambire, i Genesis si trovano oggi al centro di interessi astronomici, di una sfrenata corsa alla deificazione dei personaggi. Inevitabile dunque che qualcuno andasse a ripescare le vecchie incisioni di Gabriel e soci - così com'è successo per Yes, Cat Stevens, David Bowie ... - immettendole sul mercato nella certezza di poter contare su un potenziale di vendita infinitamente superiore al loro reale valore. Riappare così « From Genesis To Revelation», datato 1968 e realizzato dalla prima formazione del gruppo inglese, comprendente - oltre agli attuali membri Tony Banks, Peter Gabriel e Mike Rutheford - il chitarrista Anthony Philips ed il batterista John Silver, elementi giustamente silurati poco tempo dopo. L'impressione che si riceve dall'ascolto dei tredici brani non è, tutto sommato, così disastrosa: e vari fattori devono essere tenuti presente, dalla giovanissima età dei musicisti alla totale inesperienza « di studio», fino alla pessima produzione di Jonathan King (noto da noi per il suo arrangiamento di «Satisfaction ». portato al successo dai Tritons). Le analogie con la più recente produzione dei Genesis sono molto più marcate di quanto possa sembrare a prima vista: «Where The Sour Turns To Sweet». « Fireside Song ». «A Piace To Cali My Own» contengono già mo!ti germi importanti, destinati a svilupparsi qualche tempo dopo nelle direzioni che ben conosciamo. Ogni quadro è costruito con grazia e semplicità. colorato soprattutto dal particolare uso delle tastiere; la struttura è quella di un piccolo racconto a sé stante. che acquista comunque una sua esatta dimensione come parte di un più esteso mosaico. Ciò che manca nel modo più evidente sono gli arrangiamenti, spesso dolciastri e costantemente troppo scarni, poveri, incapaci di dare un giusto risalto alle componenti più significative del suono: così è inevitabile riscontrare una certa piattezza, che a volte diventa vero e proprio tedio. Al di là di queste comprensibili ingenuità, l'album è ascoltabile: ma non credo proprio che possa essere considerato utile per un pubblico diverso da quello dei collezionisti. m.f. ENO Here Come the Warm Jets (lsland) • Il precedente album di Eno con Robert Fripp, il primo dopo il distacco da Roxy Music, ha avuto un'accoglienza controversa ma indubbiamente singolare: molti, fra coloro che hanno definito l'esperimento poco o per nulla riuscito, tendevano ad attribuire le maggiori responsabilità al chitarrista dei King Crimson, apparso a disagio dinnanzi alle trovate di Eno. Per questo ultimo il giudizio era stato rinviato. Certamente questo nuovo album non elimina tutte le perplessità, ma dice qualcosa di più preciso sulla stramba personalità di questo «manipolatore di suoni » (è ormai questa la sua definizione ufficiale. visto che nessuno ha il coraggio di chiamarlo solista dei molti strumenti più o meno ortodossi che maltratta senza pudore). Eno ha pubblicato nel '68 una opera intitolata « Music tor Non -Musicians » e a questo programma sembra volersi attenere con grande coerenza: se il professionismo finisce con lo integrare e con l'uccidere la creatività, non resta che rifugiarsi nella musica fatta dai non musicisti (come lui). Una concezione ardita ma in fondo accettabile; tuttavia anche su certe strade è più facile predicare che razzolare e questo disco è la controprova delle difficoltà che può incontrare. nel passaggio dalla teoria alla pratica, persino un indubbio talento naturale come Eno. Il suo ambiguo rapporto con la musica diventa spesso scherno, parodia dissacrante d'ogni genere musicale: dalla canzonetta pacchiana ai coretti di tipo zappiano (che già sono parodia), dai Beatles fino alla più seria ricerca elettronica. Tutto sembra distorto dal suo impudico humour di non musicista. Lo aiutano in questo la sua voce sguaiata, di sesso imprec:sato, e quei termini di una ingenuità assurda e arrangiati con trovate sorprendenti quanto discontinue. Assai meno lo aiutano i session men, professionisti magari di vaglia (come lo stesso Fripp, Chris Spedding, John Wetton, Simon King, etc.) che hanno ben poco da spartire, salvo forse Andy Mackay e Phil Manzanera (suoi ex compagni in Roxy Music). con la dissacrante visione di Eno. E qui cade paradossalmente il discorso teorico del non musicista: i brani più azzeccati, quelli che più coerentemente riflettono il mondo di Eno. sono quelli dove domina più incontrasta la sua lampeggiante rozzezza di manipolatore di suoni («The Paw Paw Negro Blowtork ». « Cindy tells me». « Some of them are Old»). Forse quel che serviva a Eno non era tanto un sostegno di rock più o meno aggiornato, quanto poche cose pulite - magari un tantino raffinate - ma capaci di dare una maggior dignità formale alle sue balbettanti trovate e riscattare la sua miseria tecnica. Così com'è finora l'opera di Eno è un tentativo frustrato ed ambiguo, immerso a metà in ua caotica inventiva naH e a metà in un'abile operazione commerciale; ma soprattutto l'appello teorico del non musicista rischia di affogare in una inutile e dil':lttantesca ricerca formale. ARTISTI VARI « The Guitar A bum » (2 LP Polydor) p.d. Nonostante i più recenti ritrovati elettronici, la vastissima 53

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