lor, si pone il problema di ricostruire la propria musica su basi più concrete e legate ad un retroterra popolare più definito e reale, dopo le rotture anarcoidi della prima ora del Free. E' appunto il periodo in cui Don Cherry, girando il mondo e suonando con musicisti di culture diverse, sta mettendo appunto la sua personalissima ricerca, ancora non finita, di recupero creativo delle fonti folcloriche africane e orientali. E Gato è presente alla prima parte del viaggio di Cherry, certamente il più duro e denso di incognite. Ad un certo punlo il distacco tra i due diventa inevitabile: Gato intuisce che la ricerca di Don è giusta e indispensabile, e che deve pure lui trovare una via personale. Per ora non sa àncora quale, e diversi sono gli elementi che lo riconducono gradualmente alle radici della sua terra. Anzitutto la partecipazione ad un'esperienza eccitante come quella della Libcration Music Orchestra di Charlie Haden, il sensibile ed impegnatissimo bassista di Ornette Coleman, che vede soprattutto nei canti della guerra di Spagna, nella morte di Che Guevara, gli spunti reali per giustificare il suo canto colleltivo (ci sono tutti: da Cherry a Roswell Rudd, da Dewey Redman a Carla Bley, da Andrew Cyrille a Paul Motian). Gato scopre' di trovarsi più che a suo agio in un contesto simile: non si tratta dei musicisti, con cui ha suonato già parecchie volte, ma della musica, dei riferimenti etnico-culturali che sente particolarmente vicini. Poi, ma è appena precedente in ordine di tempo, la breve associazione con il pianista-compositore sudafricano Dollar Brancl, un geniale artista tutt'ora misconosciuto, che ha attuato una singolare e personalissima ·,intesi tra canti tribali della sua terra, jazz e musica classica europea. Gato non lavora a lungo con Brand, incide solo un disco in duo con lui, bellissimo, ma purtroppo pressoché introvabile: è quanto basta per rimanere folgo- ·rato, come era già accaduto a Don Cherry, che da Brand ha ricevuto un'impronta indelebile. Alla conversione di Gato hanno poi contribuito parecchi altri fattori. Il sodalizio newyorkese con Joao Gilberto, uno splendido chitarrista-cantante-compositore brasiliano, troppo spesso frainteso e confuso in mezzo a sofisticati o dozzinali interpreti di bossa nova. Gilberto è una specie di caposcuola per la fertilissima e appassionata nuova generazione di musicisti brasiliani: quella cerchia di originali int<;:rpreti cli musica popolare, che pur non essendo molto conosciuta dalle nostre parti (la nostra radio ci propina ancora le mistificazioni in scatola di Sergio Mendes & Co.), annovera artisti eccellenti come Caetano Veloso, Gilberto Gil, Maria Behtania, Gal Costa, Jorge Ben e tanti altri. Gato riscopre lì a New York il fascino di queste musiche, proprio grazie a simili artisti e ai loro dischi. Ormai i suoi interessi si sono allarga ti: si accorge che oltre al jazz, c'è una quantità cli altra ottima musica. Perciò lo si può incontrare non solo nei club di jazz, ma anche ai concerti cli cantanti come Aretha Franklin o Janis Joplin, che egli apprezza molto. Poi ritorna in Argentina per un breve viaggio e l'impatto con la sua terra è diverso da quello delle altre rare volte in cui è tornato. Qui scopre la musica di Astor Piazzolla, una lucidissima e poetica sintesi tra musica classica e tango argentino, e si sente ormai vicino alla meta. A New York si appassiona in lunghe discussioni con il celebre cineasta brasiliano Glauber Rocha, che non fa che ripetergli la necessità di legarsi alla scottante realtà dell'America Latina, una necessità imprescindibile per qualsiasi artista sudamericano. Infine il dado è tratto: il 24 e 25 novembre 1969 Gato registra per la Fiying Dutchman « The Third World », l'album della « grande svolta» di Barbieri. Sono con lui Haden, Rudd e Lonnie Liston Smith, un pianista già al fianco di Pharoah Sanders e che resterà con Gato per tutto il « periodo Flying Dutchman ». In questo LP coesistono due musiche, da una parte l'afroamericana, il Free Jazz, dall'altra la latinoamericana, il tango, il carnevale di Rio. Sono ormai lontani i tempi della paranoia angosciosa di « In Search of The Mist-ery » della ESP, ma è solo una prima tappa, perché la sintesi deve ancora venire. Il jazz fa ormai parte del proprio personale bagaglio culturale ed è solido è presente come una cosa, ma è il patrimonio della musica popolare del Terzo Mondo che deve essere ancora pienamente assimilato, filtrato, vissuto, ricreato. La voce del sax tenore c'è già: una voce viri· le, forte, ma più lirica, più dolce del passato. C'è anche il flauto, che Gato usa solo per variare un po' l'atmosfera della sua musica. E c'è pure la voce umana, il canto di Gato, che è veramente originale e in carattere con lo spirito latinoamericano più di tutto il resto, forse. Con gli album successivi Gato riesce progressivamente a recuperare tutte le caratteristiche essenziali della musica della sua terra d'origine: la nostalgia, la gioia, la melodia, i colori, il ritmo, la danza. E' come un viaggio alla ricerca del « tempo perduto», ma tutt'affatto decadente o retorico. E' qualcosa di vivo, di estremamente legato alla realtà, ai tempi presenti, senza pretestuosi voli intellettualistici e macchinosi. E' un cammino che dall'esterno appare perfettamente naturale e logico. Cambia continuamente compagni di viaggio (solo Lonnie L. Smith resta al suo posto), nell'ansia di far corrispondere sempre più la musica all'idea che ormai ha in testa. Uno di quelli che resta più a lungo con lui è il brasiliano Nanà, perché è più vicino degli altri allo spirito del suo discorso. Con « Under Fire » e «Bolivia» la saldatura è ormai prossima: il canto si è fatto più semplice,· più immediato, più diretto. Il Free Jazz è lontano ora ed è solo un saldo, ma rigenerato riferimento culturale. Gato gradualmente è uscito dal ghetto del jazz ed è conosciuto da un puhbìico ben più largo. Su questo fatto hanno agito, è vero, altri elementi extramusicali, come la pittoresca tenuta da gaucho o la sua colonna 5onora di « Ultimo Tari43
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