Cominciamo col dire che la musica dell'artista ha gli occhi bianchi e il corpo debole, chiusa com'è in giardini senz' aria, librata in cielo a metà tra favola e mito di plastica. E' suono ambiguo, tenero abbaglio: un budino dal sapore agrodolce dove la confusione è impaqata con l'abilità, e le spezie della « idea folgorante» si scontrano con il grigio fondo delle strutture, dei rigidi schemi. Certo, in pomeriggi cli Woodstock eo;1 l'artista ubriacante ad occhi chiusi e mulinelli di note ed emozioni. llltto ci pareva chiaro e bellissimo. e nemmeno ci sfiorava l'idC'a della debolezza, della fragilità· volevamo una conferma del fuoco hendrixiano, volevamo sognare e correre a p'ecli nudi con cuore tonante lungo l'Autostrada dei Ritmi primigeni - e quella era la risposta, dita flessuose e veloci su congas vecchie come il mondo e il canto superbo e altero cli Suclamerica - sangue alla testa, in mezzo ai grattacieli di freddi anni contemporanei. Eccitazione, nervi tesi, scariche morbide/violente di elettricità lungo le linee del corpo e dello spirito: la terra cantava con la at11ra e noi si guardava abbagliati quella visione, quella festa, quel carnevale, certi di aver trovato una pagina esaltante in fondo alla lunga scrittura ciel pop. Ma poi vennero i dischi e le disillusioni, vennero esibizioni felici ma inquietanti (professionistiche), vennero dueoreclue cli spel taco lo con tutti i ricami previsti dal copione e le dissertazioni amare/belle « come da disco» - era dunque quella l'improvvisazione, la spontaneità, il ballo rituale sotto la Luna? In realtà nulla in Santana è fluido, libero, travolgente; nulla è lascialo al caso e al soffiare del vento, e poca è la magìa, è l'incanto dorme sorridendo. E' tutto un gioco cli specchi, un'impressione superficiale: un far vibrare le corde tese dell'anima e poi via, più nulla, l'effimero corto c:rcui to e la fuga verso la banalità, i soliti riflessi, il solito godimento. E' il ritmo. soprattutto, a scandire il ritmo 38 111111111 dell'inganno: il ritmo che sempre ci assale con garbo, che non ci travolge schiacciandoci l'esofago, facendoci morire al terzo respiro. Le congas vanno, s'intrecciano sinuose: ma i vicoli toccati sono sempre gli stessi, come da imitazioni di imitazioni di copie cli Bahia, come da immagini sbiadite d Carnevale a Rio. Manca il vero sentimento e l'atroce bellezza: manca il piglio bastardo e la violenza cupa. E dunque tutto si fa luogo comune, con i soliti giri e (perché no?) lo spettro di un Sergio Mendes rivisto pochi passi oltre: e si consuma nell'ipocrisìa la falsa « latinità» di Santana, mai risolta, mai decisa, mai veramente presente nella sua musica (non basta una· conga per dipingere il Sudamerica: dov'è il grido della foresta e il volo dell'uccello, dov'è la bocca impastata di schiavitù e l'antica tradizione di rabbia? Santana recupera id~e stinte come cimeli che gli tornano comodi, per un suono stereotipato dunque immobile dunque vano: ci rifiutiamo di veder « musica latina» nel gioco di prestigio dell'artista!).
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