Leggendo la lettera di Paolo Navarra, mi vengono spontanee alcune considerazioni: 1) Il Navarra afferma, praticamente, che Bob Dylan è un venduto. Vecchio problema: sappiamo tutti che in una società come questa essere e dover essere coincidono raramente. Senza scomodare Dylan e l'America guardiamoci intorno: quanti intellettualini sessantotteschi cresciuti nel « rifiuto della cultura borghese» sono oggi diventati rappresentanti di quella stessa cultura, e cioè professori? Essere compagni va bene - affermano da dietro una cattedra però se non sai niente della metafisica aristotelica io ti boccio. 2) Considerare la meravigliosa Bob Dylan's dream solo come « una ballata folk più consona all'orecchio e alla tasca del pubblico bianco ... » vuol dire ritenere l'uomo, anzi il compagno, degno solo di quei tanti sottoprodotti culturali che in nome della decantata « arte rivoluzionaria » vengono propinati dalla sinistra - extraparlamentate e non. 3) E' vero che prima delle manifestazioni nessuno ascolta gli Who o i Them, ma è anche vero che gli Who o i Them fanno parte <lei bagaglio culturale di almeno metà dei partecipanti alla manifestazione. 4) E' vero che il rock in sé non è rivoluzionario, ma è anche vero che ormai fa parte di un nuovo modo di essere rivoluzionario. Con tanti saluti a chi la rivoluzione la vuole fare solo con « le riunioni di cellula», o ascoltanto Bandiera Rossa. 5) Infine « chiudo tristemente » pensando che è proprio Navarra ad essere arrivato in ritardo con la storia, se si trova ancora oggi a combattere certe istanze che, per esempio, in America dieci-dodici anni fa venivano portate avanti - guarda caso - da Dylan, Jefferson Airplane etc. etc. Sergio Duichin (Roma) Intervengo anch'io, se permettete, nel dibattito così corret· tamente portato avanti dai lettori sul problema dei rapporti rock-società, aperto con un articolo di Manuel Insolera sul n. 2 (chi ha paura del lupo cattivo? pag. 25). Intervengo però con una lettera per due motivi. In primo luogo mi sarebbe sembrato scorretto intervenire con un articolo o una risposta alle lettere, perché mi avrebbe posto in una posizione di previlegio nei confronti di un dibattito che vuol essere innanzitutto ricerca (e stimolo alla ricerca) collettiva su un problema così determinante. In secondo luo• go non penso che la mia posizione coincida in tutto con quella degli altri di Muzak e non mi sarebbe sembrato giusto farla indirettamente passare come tale. E mi si per• metta anzi una piccola parentesi (dato che da molte parti, in buona o in cattiva fede, s'è posto in dubbio l'effettiva validità del collettivo redazionale). Una parentesi per dire che il collettivo in effetti funziona, e forse questa lettera in parte lo dimostra, proprio come momento di confronto interno: il collettivo discute, decide, esamina e critica colletti. vamente. Salva restandO: una certa divisione del lavoro per quel che riguarda i momenti pratici di attuazione delle direttive collegialmente defini te. Ma entriamo nel merito della questione. Se errore c'è stato, da qualche parte in questo dibattito, è stato , a mio avviso, quello di vedere il problema in termini riduttivi, riducendolo cioè alla domanda: è il rock di per sé rivoluzionario o no? Prima di abbozzare un'ipotesi di risposta (ammesso che sia possibile) vorrei porre un problema di definizione. Mi servirò dunque. di due affermazioni e tenterò di giustificarle: a) l'arte, e la musica in particolare, hanno sempre rapporti più o meno stretti (e più o meno evidenti) con l'ambiente da cui nascono e in cui esercitano la loro influenza; b) l'artista risente sempre (più o meno direttamente) dell'ambiente sociale da cui è nato e in cui vive. Questo non vuol dire evipo,ta dentemente che l'opera d'arte sia sempre riportabile meccanicamente all'ambiente sociale in cui si colloca, né che l'artista sia sempre e comunque legato alle sue origini o alla sua collocazione sociale. ' Prova ne sono, se .non altro, grandissimi musicisti del passato e del presente che, sebbene fondamentalmente reazionari, hanno dato e danno prodotti musicali di altissimo potenziale rivoluzionario o progressista. Fatte queste due affermazioni e posti i limiti della loro validità, vediamo cosa vuol dire in pratica l'esistenza di un rapporto ( tutto da definire) fra arte e società. Potremo dire, per chiarezza, che l'opera d'arte esiste nel momento in cui sono dati due poli, il creatore e il fruitore, quello che fa l'opera d'arte e quello che la riceve. Tra· mite fra questi due poli e il linguaggio, inteso come insieme di segni, non come parole o concetti. Già così si vede come l'opera d'arte non sia Opera d'Arte, non sia eterna ma storicamente e socialmente determinata e circoscritta. E infatti chi è l'artista se non una persona che nasce in determinato momento, viene educato umanamente e artisticamente in un certo modo, vive con certa gente secondo certi schemi sociali? E cos'è il pubblico se non un insieme di persone che sono nel contempo persone che vivono, che hanno rapporti interpersonali, animali « politici »? E, infine, cos'è il linguaggio se non quella particolare forma di espressione variante di tempo in tempo, cli civiltà in civiltà, eia gruppo a gruppo? E dunque (pe1· questione di brevità procedo per punti e in modo un po' approssimativo) oggi come oggi, nell'ambito di quella che chiameremo cultura rock o underground, quali sono i rapporti, chi sono gli artisti, chi è il pubblico, qual è il linguaggio? Solo rispondendo a queste domande si può arrivare. a stabilire quale (se esiste) sia la carica eversiva, di contraposizione al sistema, la carica alternativa di questa musica. Dopodiché, tutto sommato, ritengo inutile dire la mia opinione. Mi sembra sufficiente (ed era il mio scopo) porre l'accento su una questione metodologica. I lettori, l'amico Manuel e gli altri del colletti· vo potranno, se lo riterranno opportuno trarre conclusioni.. Ma a me sembra che non si possa prescindere da una visione chiara dei rapporti, dia· letticamente intesi, fra cultura e società, pena arrivare a quelle conclusioni che svuotano la musica di ogni realtà per ritrovarsela appesa alle nuvole incapace di vivere per e con gli uomini. Giaime Pintor (Roma) Povera vita! Al giorno d'oggi tra beduini e rapine capita cli tutto; capita anche di leggere articoli su giornali « specializzati » che fanno cedere i genitali per terra! Ci riferiamo all'«articolone» ciel « dottissimo » G. Pintor sul N. 4 di MUZAK. MUZAK è un buon giornale, con artico• li di un certo interesse, ma, per Giove pluvio(!), c'è un direttore (al cui cospetto, come direttore e nient'altro, ci scappelliamo), che si sente in dovere, pur carentissimo di preparazione musicale, di fa. re un articolo sulla musica to· tale dei SOFT MACHINE tanto contraddittorio e insulso. « Caro amico » è bene che articoli, sui SOFT MACHINE o altri, non siano preparati da gente che alle riunioni tra amici preferisce ascoltare un disco di Mina, anziché di un RILEY o dei Softs stessi (e non ci domandi: « Chi ve l'ha detto?»). Inoltre ci meravigliamo che gente come quelli del vostro collettivo (vedi Insolera che vi ha «gentilmente» aiutato), forse per non contrariare un superiore, abbiano permesso la pubblicazione di un simile parto anale. Andiamo al so· do: fuori luogo è la lunghiss!ma e .insignificante disquis1z10ne mtroduttiva dove lei passa da RILEY a BEETHOVEN, da MOZART a STOCK HAUSEN, con una facilità 5
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