Muzak - anno II - n.05 - marzo 1974

KEITHJARRETT unartistadi transizione Il nome di Keith Jarret è uno di quelli che vengono nominati spesso nei resoconti musicali degli ultimi tempi. Si tratta quasi sempre di citazioni positive, se non addirittura esaltanti, ma molto spesso si perdono le proporzioni, si smarrisce la giusta prospettiva e si finisce, in ultima analisi, per danneggiare un artista indubitabilmente sincero come Jarrett. Il fatto è che lui, come pochi altri, tra i musicisti delle ultime generazioni, si è semp;:e adoprato coscientemente e scrupolosamente per portare la musica fuori e oltre le barriere precedentemente erette dai mass-media tradizionali, facendola respirare e vive::e ad una massa di pubblico più larga di quella normalmente riservata ai diversi singoli generi istituzionalizzati (vedi jazz, classico, folk ....). E tutto ciò Keith lo fa unicamente per una esigenza interiore, per una insopprimibile ansia di creare musica liberamente, filtrando tutta la propria cultura e ogni reminiscenza del passato attraverso il desiderio di comunicare la sua visione del mondo e della vita a tutta la gente possibile. Una simile tendenza è senza dubbio oggi quella che offre più risultati positivi ed incoraggianti per il futuro, tenuto conto che stiamo vivendo attualmente un periodo di ripensamento e di ricostruzione (e spesso di crisi), dopo le esaltanti e ribollenti proposte degli ormai tanto celebrati anni '60. Ma se questa è la via, non tutti la imboccano lucidi e sicuri, preferendo anzi spesso accettarla solo per convenienza economica o, comunque, extramusicale. (Il caso Miles Davis in· segna ...). Jarrett invece, una volta scelta la musica come suo primo linguaggio, spazia nella sua ricerca mettendo insieme elementi tra i più diversi, scuole e stili apparentemente inconciliabili, riuscendo a trovare quasi sempre una sintesi equilibrata e personalissima, che sovente pare al di fuori del tempo (con tutte le conse30 guenze positive e anche negative ...). Una simile posizione lo porta ad essere capito ed amato soprattutto dalle giovani generazioni, che sentono nella sua musica un'esigenza, che è di tutti, di ritrovare nel mondo e nella vita attuali una freschezza e una semplicità ormai offuscate. Certo Jarrett non è di quelli che s'impegnano pure in un discorso sociale: egli ha solo scelto di stare lontano dalla nevrosi e dall'alienazione di una metropoli disumana e terribile come New York, preferendo una casa in campagna, le piccole gioie familiari e la musica. Ha le sue idee, rifiuta la violenza e la brutalità di un sistema sociale iniquo come quello americano, ma si sente impotente di fronte ad un impegno volto a cambiare tale stato di cose. Sa bene che la musica è solo un alibi, un rifugio, ma ciò non gli impedisce di cercare attraverso di essa una serenità, un equilibrio almeno temporanei. Naturalmente, dato che la musica jarrettiana si fonda su differenti elementi, con una buona dose di lirismo e con marcati riferimenti a linguaggi musicali del passato, un buon numero di critici della vecchia guardia, che passano notti insonni angosciandosi di non riconoscere nella musica di oggi « il loro caro, vecchio jazz», ascoltando Keith hanno tirato un sospiro di sollievo. In tal modo essi non hanno esitato un attimo ed hanno eletto Jarrett. « il nuovo gigante del pianojazz», cercando ancora una volta di imprigionare un artista vivo e in continua trasformazione in una formuletta imbalsamata e sciocca. Senza contare che Keith non è affatto un gigante, di quelli cioèche creano una scuola e una via da studiare e da approfondire (come ad es. Charlie Parker, Omette Coleman o John Coltrane), ma semplicemente un musicista cosciente e serio che rispecchia nel migliore dei modi la fase attuale di ristagno e di ricostruzione. Ma vediamo di delin':!are più da vicino la figura di J arrett, partendo dai dati biografici e artistici più importanti. Keith nasce 1'8 maggio 1945 ad Alletown in Pennsylvania, sotto la costellazione del Toro. A soli tre anni riceve le prime lezioni di pianoforte. Poco dopo si dedica anche allo studio e all'esplor::izione di altri strumenti come il vibrafono, la batteria e il sax soprano. Nel '62 già è in grado di dare un récital di sue composizioni. Studia poi, per tre anni, alla Berklee School of Music di Boston, dove costituisce il suo primo trio. Finalmente si decide al grande pas· so: New York. Qui inizia a suonare regolarmente da professionista. Lavora successivamente con Rahsaan Roland Kirk, Tony Scott e i Jazz Messengers del famoso batterista Art Blakey (con i quali incide pure il primo LP, «Buttercorn Lady », per la Limelight). Ma l'associazione più importante per il completamento e il consolidamento del suo stile, nonché per l'affermazione del suo nome oltre la cerchia ristretta dei soli musicisti, è quella con il sassofonista-flautista Charles Lloyd (1966). Godendo di un supporto promozionale inconsueto per un jaz-

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