« sporchi » dalla sonorità distorta. La figura corrosa e efebica di Mick Jagger come inizio di tutto; il rock-blues degli Stones come primo incespicante legame tra hit-parade e circuito underground; gli scialli rosa e le rose rosse ancora di Mick come prima percezione della decadenza; la « simpatia per il diavolo» rollingstoniana come anticipazione del 34 culto della putrefazione: l'ambiguità era già nata con i primi vagiti del beat. L'ostentazione sessuale come estremo atto di violenza contro le forze oscure della morte si trasmette ai grandi sacerdoti del « secondo rock»: Jimi Hendrix che dilania la sua bianca chitarra-fallo; Jim Morrison che si masturba nelle estasi suprema della creazione musicale; Janis Joplin che emana drogati deliri al whisky anfetaminico. E guarda caso, sono stati proprio loro i primi a morire, struggenti sacerdoti privati di qualsiasi tabernacolo, paladini di una sessualità « ortodossa » ma forse ancora più vicina al sentimento del nulla che tutto il successivo cascame decadente. E poi ci fu Bob Dylan, il roco messaggero degli dei, la voce spezzata tra le tegole degli edifici sventrati dell'Altra Parte della opulenta New York: ci fu Bob Dylan e il suo allucinato folk-rock, la follia inacidita di albums come « Highway 61 Revisited » e « Bionde on blonde », il torrente inarticolato di violenza verbale e di delirante oratoria poetica, i suoni metallici della chitarre elettriche e il piccolo uomo febbrile bianco e macilento. Bob Dylan non era un trave-
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