giovane critica - n. 34/35/36 - primavera 1973

metalli, e dovevano rispondere: non ne abbiamo bisogno. Quindi rialzare il livello dell'attività produttiva Interna vuol dire anche creare possibilità di esportazione contro uno sviluppo delle Importazioni e proprio delle importazioni di quei beni di consumo e di quelle materie prime, che possono essere rese necessarie dal nostro programma. A questo proposito, siccome un giornale di questa mattina ha scritto che qui si è affermata la necessità della liberalizzazione degli scambi, sarà opportuno dire due parole a questo proposito. Ormai la maggior parte degli economisti è d'accordo che la teoria tradizionale degli scambi internazionali, la teoria secondo la quale la libertà degli scambi realizza il vantaggio di tutti i paesi mediante l'ottima divisione internazionale del lavoro, trova un limite di fronte a situazioni di disoccupazione. Anche chi ritiene che questa teoria stia, per tutto il resto, ancora in piedi, deve ammettere che essa non regge quando la questione non è di impiegare le risorse disponibili in un modo piuttosto che in un altro, ma di impiegarle o di lasciarle disoccupate. Quindi questo movimento, verso la liberalizzazione degli scambi nell'interno dell'Europa occidentale rischia di compromettere le possibilità di una politica di piena occupazione in Italia. D'altronde, e lo hanno detto anche studiosi non sospetti, qualunque sia il merito di questa politica è certo che la sua realizzazione con la fretta e la faciloneria con cui si cerca di Imporla, avrebbero conseguenze certamente deleterie. Badate che noi abbiamo fatto nel nostro Paese un'esperienza di liberalizzazione degli scambi; quella tra l'Italia Settentrionale e l'Italia Meridionale al tempo dell'unificazione. La liberalizzazione è stata appunto accompagnata dall'unificazione politica e quindi dalle condizioni piu favorevoli sia al libero movimento delle persone, sia a una politica fiscale compensatrice, con la quale la parte plu ricca del Paese sopperisse all'Inferiorità della parte plii povera. Eppure, almeno in termini relativi, la parte plii ricca del Paese è diventata sempre plu ricca e la parte plii povera sempre più povera. Questo è un esempio che cl tocca da vicino e che dovremmo aempre tener presente nel rapporti Internazionali. Detto questo, affermata - sia pure con 165 il riconoscimento di alcune difficoltà - la possibilità di una larga politica di investimenti e di sviluppo economico, resterebbe da dire qualcosa sui suoi strumenti, e in particolare su quella che è la politica e la tecnica del bilancio. A questo proposito vorrei dire intanto che la classe dirigente italiana non è stata sempre quale la conosciamo oggi. Per esempio nei primi decenni dopo l'unificazione, la classe dirigente italiana ha saputo non solo fare una politica di larghi investimenti, ma ha creato una tecnica del bilancio, adeguata al momento. Per esempio, di fronte al problema della costruzione delle strade ferrate, la classe dirigente di allora si è resa conto che i lavori di questo tipo non potevano essere trattati con gli stessi criteri contabili delle spese correnti, e cosi è stata creata una apposita categoria del bilancio, dando un esempio di quella necessaria distinzione tra bilancio delle entrate e spese correnti, e conto capitale, che dopo 60 o 70 anni ha cominciato ad imporsi in un numero sempre crescente di Paesi, come condizione di una corretta politica finanziaria. Oggi, noi, continuiamo ad avere il feticcio del pareggio. Ma questo è semplicemente il frutto di una analogia arbitraria tra bilancio dello Stato e bilanci privati. C'è stata solo una ragione seria, e in parte c'è ancora, a favore del cirterio del pareggio: ed è che questo permette un controllo rigido sull'attività finanziaria dello Stato. Ma di fronte alle esigenze della società moderna, questo criterio, oggi, non è più soddisfacente. Noi dobbiamo consapevolmente sostituire alla responsabilità dello Stato per li pareggio del bilancio la responsabilità dello Stato per il miglior Impiego delle risorse nazionali. Naturalmente un problema delle dimensioni del nostro problema dell'occupazione non si risolve se non si ha il coraggio di sostituire consapevolmente ai calcoli di convenienza privata i calcoli di convenienza collettiva. In questi giorni abbiamo sentito parlare opportunamente della necessità di non tener conto di tutto o di parte del costo di lavoro nell'Impiego e nella vendita di certi beni. Questo criterio va esteso sistematicamente tutte le volte che esso porti all'assorbimento di disoccupazione. E guardate, tirati per I capelli, anche I governi

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