giovane critica - n. 33 - inverno 1973

• inverno 1973 • • • giovane critica 33 Questodannato meccanismodi sviluppo Giorgio Ruffolo / Stiamo marciando verso il socialismo, a passi indietro / 1 Luciano Barca / Siamo entrati in una fae nuova, complessa / 7 Un difetto di chiarezza / 15 William Gori / In morte di Gasparazzo / 16 Luigi C'.ovatta / L'itinerario della sinistra cattolica / 17 Edmondo M. Capecelatro / Salerno, 4- città del md per reddito industriale / J4 Sezgio Dalmasso / La diaspora socialista ili ltilla (19'1-19'8) / 37 ~piero Mughini / L'« allare llìtll,fic » / 47

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7 gennaio 7 gennaio. li ritardo con cui appare codesto n. 33 di Giovane critica va oltre le plu nere aspettative. Fra il progettare e l'editare c'è stato di mezzo un cambiamento di editore, una difficile assimilazione della rivista da parte delle strutture produttive delle Edizioni Sapere, un vigoroso sciopero delle Poste milanesi. Di tale ritardo risentono forse le due interviste con Luciano Barca e Giorgio Ruffolo. Organizzate e curate ormai da tempo da Aldo Canale (Fabio Sigonlo per gli abbonati dell'Astrolabio d'antan), le abbiamo trascritte direttamente dal magnetofono in modo da conservar loro la vivezza del linguaggio parlato. Esse costituiscono il nucleo tematico di questo numero; il prosieguo, culturale e politico, del discorso iniziato con Il fatidico questionario; la conferma del brusco spostamento di interessi della rivista. Tale spostamento ha suscitato critiche, anche aspre, com'è facile immaginare. Ne offriamo piu oltre un campione, scelto fra le missive dei nostri amici piu cari. li prossimo numero di Giovane critica sarà interamente dedicato alla documentazione e ricostruzione critica del dibattito politicoeconomico nell'Italia dell'immediato dopoguerra (1945-1950). Giorgio Ruffolo Stiamo marciando verso il socialismo, a passi indietro D. Quali sono oggi le caratteristiche dell'Impresa pubblica rispetto a quelle dell'impresa privata? R. Soltanto in una situazione nella quale vi sia da una parte un mercato quale lo descrivono i manuali di economia politica, cioè concorrenziale, e dall'altra strutture amministrative, avrebbe senso chiamare private le imprese che operano nel primo e pubbliche le altre. La divisione è in tal caso netta. Nell'economia del capitalismo concorrenziale, che si awicina a questo modello, la distinzione tra pubblico e privato è, infatti, abbastanza netta. Ma con la creazione della grande impresa questa distinzione si stempera, In quanto la grande impresa è una grande organizzazione amministrativa; e nel suo operare sono commisti elementi di mercato e di potere amministrativo. Il prezzo - la teoria dell'oligopolio è li per dimostrarlo - non è dato dall'incontro tra domanda e offerta in un mercato concorrenziale: è un prezzo amministrato, come dicono gli economisti. E' un prezzo che la grande impresa è capace di fissare e difendere per il fatto stesso che essa è grande, che ha una quota di mercato considerevole, che ha un potere sul mercato. Dal momento che ha acquisito un potere, che non è solo un potere economico ma anche un potere politico, un potere di pressione diretta sulle strutture amministrative e politiche, chiedersi se l'impresa è privata o pubblica non ha molto senso, indipendentemente dalla sua forma proprietaria, esso è d'interesse pubblico: quali sono I rapporti tra la grande Impresa e la programmazione. Da un punto di vista sostanziale tra la Fiat e l'Eni, tra la Flat e l'lri non vi sono grandi differenze. C'è una differenza storica. Per una serie di

2 ragioni lo Stato è intervenuto nella siderurgia, nei petroli e in altri settori ed ha creato delle strutture imprenditoriali. Se lo svolgimento storico avesse preso una direzione diversa, lo Stato avrebbe potuto avere un'impresa pubblica nell'automobile; come è avvenuto in Francia, d'altronde. E quindi ci troveremmo di fronte ad una siderurgia privata e ad una Fiat impresa pubblica. Tutto ciò dipende da ragioni storiche contingenti. Da quando Berle e Means scrissero il loro famoso libro sulla grande impresa per dimostrare che il potere stava passando gradualmente dalle mani dei proprietari azionisti ai dirigenti veri e propri, cioè a quelli che erano stati i loro impiegati, questa tesi è data per scontata (malgrado le forti resistenze, anche di natura psicologica, psicanalitica oserei dire, incontrate, poiché ammettere che il proprietario non è piu Il capitalista quale Scalarini lo effigiava nelle caricature del Sempre Avanti!, il personaggio del quale la iconografia socialista è ricca, è difficile). Il passaggio dal proprietario al dirigente non avviene perché la proprietà si divide in tante azioni, si polverizza, ma semplicemente perché non si può • possedere • una grande impresa. Lo spostamento del potere dal proprietario al dirigente avviene perché una grande organizzazione basata su rapporti pianificati e non su rapporti di mercato, non può essere posseduta come un oggetto, ma deve essere gestita: il potere non dipende tanto dall'esserne titolare giuridicamente, quanto dal saperla guidare. Quando Agnelli ha voluto esercitare un effettivo controllo sulla Fiat ha dovuto diventare dirigente della Fiat. E ci sono esempi di altri industriali che pur essendo proprietari delle loro imprese sono stati allontanati dall'impresa dai loro stessi • impiegati •. Se questa impostazione è vera, si deve trarne una conseguenza. L'impresa pubblica è una grande impresa il cui interesse pubblico è stato già esplicitamente riconosciuto. D. lo però vorrei andare ad un'analisi storica, un'analisi storica dell'industria pubbli• ca in Italia, del ruolo svolto dall'indu• stria pubblica nel paese: se essa ha favorito quel processo di razionaliuazione del quale parlavano prima o se invece ha complicato la composmone del potere economico del paese attraverso errate scelte congiunturali per la mancanza stessa di una programmazione, costituendo alla fin fine un freno per lo sviluppo stesso. E' un'affermazione, in parte almeno, provocatoria... R. No, non è tanto provocatoria. Le imprese pubbliche in Italia, hanno svolto un ruolo importantissimo nella razionalizzazione del capitalismo italiano. Sono imprese manageriali moderne. Sono le sole strutture, insieme a poche altre private, che abbiano impresso all'economia italiana un deciso impulso tecnologico e di razionalizzazione in alcuni settori chiave. Il cosiddetto miracolo economico non vi sarebbe stato se non vi fossero state almeno due scelte fondamentali: quella della siderurgia a ciclo integrale e quella dello sfruttamento delle risorse metanifere attraverso una grande impresa integrata, dal gas naturale alla produzione petrolifera e alla chimica. Cioè in due settori base dell'economia l'impulso è stato dato da strutture pubbliche che hanno impresso un'accelerazione formidabile allo sviluppo economico. Molta parte di ciò che è capitalismo avanzato in Italia è dovuto alle imprese pubbliche. D. Anche se forse cl sono delle responsabilità nella gestione, ad esempio, della siderurgia... R. Non so se nella siderurgia o in altri settori. Vi possono sempre essere, dappertutto, errori di conduzione anche nelle imprese pubbliche; però se si fa obiettivamente il confronto tra quella che è stata la gestione dell'impresa pubblica e quella che è stata la gestione di altre grandi imprese ... D. Un esempio, la Mentedison... R. Non solo la Montedison, ma anche le due grandi imprese che sono confluite nella Montedison: la Montecatini e la Edison, che sono state un po' la bandiera del capitalismo italiano e il cui punto d'approdo, ahimé, è una prova abbastanza luminosa di quali vette possa raggiungere l'inefficienza di certe équlpes imprenditoriali. Direi quindi che dal confronto l'impresa esce bene. Dov'è che l'impresa pubblica incontra del

limiti e pone dei problemi simili a quelli che lei evocava? Li incontra in due direzioni: da una parte essa accumula un notevole potenziale di potere politico e ciò può costituire una minaccia per qualsiasi tentativo di programmazione democratica, ponendo difficili problemi di rapporti tra i rappresentanti di questo potere di tipo nuovo e lo Stato; perché i rappresentanti di questo nuovo potere sono si formalmente controllati dalla struttura statale, ma i modi attraverso I quali essi operano sul mercato, la libertà d'azione e le grandi risorse di cui vengono a disporre Il pongono in grado di esercitare una pressione non indiretta sulle strutture politiche. Secondo limite è il rischio che attraverso una espansione non programmata delle loro attività le imprese pubbliche Incontrino delle forti diseconomie di scala. Al di là di una certa espansione si corre il rischio, sempre plu grave, dell'inefficienza e della perdita di controllo. E le Imprese pubbliche non hanno dei limiti molto marcati all'espansione, soprattutto perché la struttura del capitalismo nella quale esse operano è debole, fragile. Vede cosa sta succedendo nell'attuale crisi del capitalismo Italiano. Le grandi Imprese hanno resistito bene a questa crisi perché si sono date delle strutture razionali e la supereranno senza altro, come hanno superato quella del '63· '64: tra di esse figurano le imprese pubbliche. Le medie e piccole imprese sono state Intaccate gravemente dalla crisi. alcune sono state travolte. Ebbene, a poco a poco, quasi come in un dolce pendio,_ molte medie e piccole imprese cadono m una specie di eutanasia e si ritrovano nell'ambito del settore pubblico. Questo fatto espande notevolmente il settore pubblico e dovrebbe accontentare i sostenitori delle soluzioni statalistiche e nazionallzzatricl, ma non c'è dubbio che questo è un modo per entrare nel socialismo alla rovescia. D. Bisognerebbeprima o poi fare un discorso approfondito sulle nazionalizzazioni... R. E" proprio quel che stavo per dire. L'ampliamento non programmatico del settore pubblico rischia di creare organismi nello stesso tempo troppo 3 politicizzati o troppo burocratizzati, tecnostrutture rigide. Ecco quali sono i suoi limiti. Proprio in ragione del loro successo le Imprese pubbliche rischiano di diventare troppo grandi, troppo potenti e meno efficienti, sul piano economico. D. Le cito una frase di Labrlola sull'« Avanti! » del febbraio scorso: « obiettivo essenziale della nostra azione politica è l'estensione della dimensione e delle funzioni dell'impresa pubblica ». E' l'unica recente posizione, diciamo cosi, firmata dai socialisti sul loro organo di stampa... R. Non so se Labriola abbia voluto esprimere un giudizio generale o semplicemente un giudizio di circostanza. Credo che la maggior parte del socialisti sia convinta che il socialismo non progredisce soltanto - come diceva un grande riformista, Turati - mettendo come emblema delle imprese produttive lo stemma del sale e tabacchi. Non basta definire pubblica qualche struttura per illudersi di averla socializzata. C'è però una tendenza nell'ambito di certo socialismo ancora abbastanza arretrato a confondere il socialismo con la statalizzazione o, peggio, con la burocrazia. Qualche volta si confonde Il socialismo con l'espansione delle strutture amministrative e burocratiche dello Stato senza rendersi conto che la burocrazia è un fattore di alienazione almeno altrettanto importante del capitalismo, In un secolo in cui si comincia a dubitare se per caso capitalismo e burocrazia non siano un unico fenomeno del meccanismo di potere. I socialisti rischiano di cadere In questa trappola; e rischiano di non essere che i corifei di un nuovo potere che si crea con il loro contributo, devo dire, subalterno. D. In linea con questo discorso volevo porle un quesito relativo ad un rapido schema proposto da Sylos Labini nel suo ultimo libro. Egli dice che esistono elementi potenziali per due sbocchi all'attuale crisi: uno di tipo « socialistico », e lo metto tra virgolette, con una crescente pubblicizzazione dei mezzi di produzione - e dice che questo è un tipo di sviluppo fisiologico; l'altro, che definisce patologico, porterebbe alla costituzione di un'oligarchia con una forte compenetrazione pubblico-privata.

4 R. Credo che Sylos labini abbia fondamentalmente ragione. Naturalmente il punto di viste di un socia Iista non può che essere quello che si riferisce al desiderio e all'auspicio che si verifichi la prima soluzione. Una soluzione, diciamo, di tipo oligarchico può nascere dall'incontro di due forze eterogenee; da una parte le tecnostrutture del capitalismo avanzato. E dall'altra quella grande forza. costantemente sottovalutata dai socialisti (che hanno sempre applicato all'Italia il modello dell'Inghilterra dei tempi di Marx) che è la burocrazia. Il vero blocco storico che si può creare in Italia non è tanto oggi quello tra gli industriali del nord e gli agrari del sud. ma quello tra certe strutture manageriali e la burocrazia. Questo potrebbe essere il blocco storico conservatore. E di questo blocco non si diminuisce la potenza con la semplice espansione del settore pubblico. D. Mi pare si possano travarne esempi molto seri nella vicenda Montedison; non tanto nella scalata dell'Enl quanto nella successiva vicenda che ha Cefis come protagonista. Cefis ha preso una serie di iniziative, che dal punto di vista del processo di sviluppo, hanno razionalizzato alcuni settori ma lo ha fatto non servendosi pili come tradizionalmente si faceva, di mediazioni politiche, ma direttamente di alcuni strumenti che, almeno concettualmente, dovrebbero essere gli strumenti propri della programmazione. R. Su questo punto naturalmente non posso rispondere. Si tratta di una vicenda complessa. Vorrei invece ritornare sul cosiddetto rischio tecnocratico. Il rischio di un incontro ad un livello politicamente arretrato tra forze manageriali obiettivamente avanzate e forze che traggono il loro potere dall'arretratezza. Tra Stati Uniti e Grecia si trova un punto d'incontro che può essere un crocevia obbligato per una soluzione autoritaria del problema italiano. Quali probabilità abbia nel futuro una soluzione del genere è difficile dirlo. Il rischio di questa soluzione, però, esiste. A me pare che l'unica strategia seria proposta, come alternativa, dalla sinistra, sia quella della programmazione, la strategia delle riforme: un piano d'insieme di mutamenti collegati con i grandi bisogni sociali del paese, un programma di socializzazione che passi attraverso la momobilitazione popolare e Il decentramento dello Stato. Una strategia che impedisca la saldatura arbitraria tra tecnostrutture manageriali e burocrazia; e inserisca le stesse forze manageriali in un generale progrnmma di lotta contro l'arretratezza. Questa è la sola alternativa possibile. Di altro non c'è che l'attesa della catarsi rivoluzionaria. Che non è una strategia. D. La strategia delle riforme cosi come è scaturita dalle lotte del '69, cosi come è stata gestita dalle forze di sinistra, ha trascurato, ovviamente direi, alcuni fattori molto importanti. li pili grosso ml sembra il condizionamento del mercato finanziario, li ruolo del sistema bancario, la sua capacità di modificare le decisioni politiche attraverso una serie di decisioni intermedie. La Inviterei a fare delle considerazioni sull'intervento dello Stato nel settore delle banche. Nel '46 fu creata la Medlobanca che doveva avere un ruolo di collegamento con la situazione politica, svolgere una certa funzione ... R. Indipendentemente dall'episodio cui lei si riferisce. e da altri, una delle colpe della sinistra in Italia è l'aver considerato i problemi finanziari come diavolerie di cui è bene non occuparsi perché in fin dei conti scompariranno tutte nella società futura. Se una maggiore attenzione fosse dedicata a questi problemi, si vedrebbe che in Italia c'è una situazione per molti versi atipica, per il fatto che certe tendenze presenti anche in altre economie capitalistiche assumono da noi dimensioni esasperate. La tendenza fondamentale è quella dell'aumento dell'intermediazione bancaria tra risparmio e investimenti. E' una constatazione banale, ormai, che il risparmio in Italia non affuisce verso il capitale di rischio bensi nei depositi delle banche e prima di essere trasferito agli investimenti viene filtrato attraverso una complessa intermediazione bancaria. Le banche, dal punto di vista giuridico, rientrano quasi tutte nel settore pubblico: quindi da questo punto di vista vi può essere una certa soddisfazione nel constatare che la maggior parte dei capitali che affluiscono alle imprese Industriali italiane sono capitali che potremmo dire se non giuridicamente pubblici, almeno pubblicamente controllati

Dobbiamo chiederci anche qui quale ruolo possa avere un sistema finanziario, gestito da una grande struttura di intermediazione bancaria.· Da un punto di vista teorico, questa struttura dà alla programmazione strumenti notevoli. Il controllo di questi flussi implica il controllo delle basi stesse dell'accumulazione capitalistica, un'accumulazione basata per lo pili sul credito. Ma è ovvio che, nella misura in cui l'intermediazione cresce, gli strumenti di intermediazione acquisiscono una loro autonomia indipendentemente dalle fonti della loro legittimazione. E' la stessa cosa che si verifica con l'aumento dei poteri di certe grandi imprese, pubbliche o private che siano. Allora, invece di puntare su un sistema sempre pili uniforme, sempre pili concentrato, dobbiamo cercare di differenziare gli strumenti attraverso i quali il risparmio affluisce agli investimenti e le forme istituzionali finanziarie; di arricchire il bacino di questi canali poiché il pericolo che si creino all'interno di queste strutture dei centri di intermediazione che finiscono si per pianificare, ma secondo una loro logica di potere, diminuirà se si accrescerà la possibilità di articolazione della programmazione. Qui incontriamo un problema che a mio modo di vedere è fondamentale proprio per l'impostazione di una programmazione moderna: se noi continuiamo ad ispirarci al criterio di una pianificazione centralizzata di tipo sovietico dobbiamo dire che è positivo che tutte le industrie chimiche facciano parte di un grande ente chimico, tutte quelle meccaniche di un grande ente meccanico, tutte quelle tessili di un ente tessile;· navighiamo cioè verso una struttura amministrativo-burocratica dell'economia. Se Invece crediamo che la programmazione debba potersi conciltare con la tendenza all'autogestione della società allora dobbiamo condannare decisamente queste tendenze alla burocratizzazione, nazionalizzazione, statalizzazione· ad un'uniformità che Investe tanto il settor~ industriale quanto Il settore finanziario. Si deve andare alla ricerca di una sempre maggiore differenziazione degli strumenti. D. Appare strano che del marxisti Intendano fare la rivoluzione o solo anche le rlfonne attraverso lo Stato~. 5 R. L'esperienza di questi ultimi decenni dovrebbe averci insegnato che non si tratta tanto di conquistare lo Stato ma di • scioglierlo • nella comunità e quindi di non rinviare il processo di socializzazione a dopo la conquista del potere, • conquistare il potere • attraverso una serie di riforme che consentano alla società di autogestirsi, di pianificarsi. D. Volevo fare a questo proposito il discorso sulla nazionalizzazione. Un discorso astratto che in questo momento non si porrebbe per casi concreti, ma può essere un discorso di tipo storico; una serie di persone si sono voltate indietro, magari proprio le stesse che contribuirono a quell'operazione, ed hanno espresso dubbi sull'esito felice della nazionalizzazione dell'energia elettrica. R. Anch'io ho qualche dubbio. D. Ecco, volevo chiederle alcuni elementi che possono essere alla base di una riconsiderazione del discorso. R. La nazionalizzazione dell'industria elettrica è stata l'ultima grande operazione di statizzazione con risultati che. visti in una prospettiva ormai distaccata, non possono non essere considerati criticamente. Nella sostanza, è stata certo un grande passo avanti. Però il modo in cui essa è stata compiuta ha consentito di trasferire grandi risorse finanziarie a centri imprenditoriali che le hanno poi utilizzate con i risultati che tutti conoscono. D. E' un caso di scelta politica dirompente... R. In ciò ha conservato il suo pieno valore. D. Andava fatta, però, all'interno di scelte - che non c'erano - di politica industriale. E' mancata cioè la capacità di indirizzare gli Indennizzi in modo produttivo e secondo razionali scelte di politica economica. R. Con la nazionalizzazione, talvolta, si pensa di risolvere Il problema attraverso gli strumenti e non attraverso gli obiettivi. Noi sappiamo che vi sono determinati strumenti: e crediamo che dandoli allo Stato funzionino meglio. Programmazione significa Invece agire sugli

6 obiettivi, non sugli strumenti. Bisogna sapere prima di tutto cosa si vuole e si deve fare e poi scegliere gli strumenti. Anche il mercato può essere uno strumento fondamentale per il raggiungimento di determinati obiettivi della programmazione. D. Nel momento in cui all'interno di una politica di centro-sinistra interpretata come svolta e come tentativo di razionalizzazione dei processi produttivi, beninteso ancora all'interno di una logica neocapitalistica, si è colpito il profitto per favorire la rendita... Forse si è sottovalutato il peso che in Italia ha ancora il • pre-capitalismo •: abbiamo a che fare con un paese in cui fenomeni come le rendite speculative. l'inefficienza burocratica, le parti piu arretrate di una società precapital istica hanno ancora un notevolissimo spazio. D. Alcuni sostengono che il discorso sulla programmazione ha avuto un notevole successo culturale poiché oggi, bene o male, le forze politiche sono costrette a misurarsi su questi temi. A me pare però che di programmazione si parli molto ma che, in tutto l'arco dei partiti, non si approfondisca quasi mai. Anche il discorso metodologico sulla programmazione non viene mai seriamente affrontato. R. Infatti, le dicevo prima che la programmazione è stata assorbita in modo ancora molto superficiale dalle forze politiche, anche perché esse agiscono con un metodo diverso da quello della programmazione. Il metodo della programmazione è quello di dedurre razionalmente dagli obiettivi i mezzi e le politiche, mentre il metodo di gestione politico tradizionale è tipicamente contrattuale, basato sul rapporto di forze. Anche coloro che proponevano la programmazione, erano piu impreparati. per molti aspetti. Ciò nonostante non è vero che la battaglia sulla programmazione sia stata soltanto una battaglia culturale. Avere presentato il problema della programmazione e delle riforme in un contesto unico rappresenta secondo me il vero punto di forza della politica che il partito socialista ha difeso. che ha cercato di portare avanti e che ha avuto, direi, delle verifiche importanti nel reale movimento delle forze sociali in Italia. Non possiamo certo dire che l'autunno caldo sia stato provocato dalla programmazione ma esso ha provato che una strategia di sinistra passa in questo momento attraverso la realizzazione di riforme in un contesto programmatico. Determinate riforme sono state compiute con maggiore o minore incisività, con maggiore o minore successo: ebbene queste riforme erano state individuate nell'ambito dei piani proposti: nello stesso bistrattato primo piano quinquennale che proponeva la riforma sanitaria, la riforma della casa, la riforma della previdenza sociale piu o meno· nel modo in cui sono state impostate, con grave ritardo, grazie alla mobilitazione sociale delle grandi masse nel 1969. Questo significa appunto che la programmazione non può esistere senza una grande mobilitazione sociale, altrimenti resta un esercizio, non tecnocratico. ma tecnografico; e che tuttavia la grande mobilitazione sociale, se non è incanalata in una politica di riforme e di programmazione, rischia di perdere orientamento e impulso. D. Nella risposta al questionario di « Giovane critica », lei parlava di un progetto sociale operativo, una formula dietro la quale c'era un discorso culturale che è stato solo accennato. Cosa potrà essere e da che cosa potrebbe partire un progetto sociale operativo? R. E' un po' difficile sintetizzare il tema del progetto sociale. Esso parte dall'assunto che la sinistra debba porsi il problema della costituzione di una nuova società e abbia il dovere di definire le linee di un modello alternativo di sviluppo. Che non ne debba parlarne soltanto, ma disegnare e proporre. Altrimenti, prendiamo il potere, lo diamo in mano ai burocrati e poi andiamo a scrivere i libri sul • dio che è fallito• e lamentiamo per trent'anni il fallimento dell'ottobre. Il progetto socialista è il punto di partenza per una strategia della sinistra. Ma che cos'è il progetto socialista? E' il tentativo di definire in modo concreto, operativo (facendo sf che gli obiettivi non restino appesi per aria ma siano col legati ad una catena di mezzi e che si indichino i tempi i modi e le risorse necessarie per poterli conseguire). gli aspetti di un modello di società socialista caratterizzato in tutti i suoi elementi. Oggi la sinistra, se vuole

avere il titolo di legittimità per guidare una società industriale moderna, che sta andando fuori di controllo, deve indicare in che modo questa società deve essere guidata democraticamente. Per poterlo indicare, non deve limitarsi a definizioni generiche: sulla libertà, sull'autogestione, sulla partecipazione; deve dire esattamente, per esempio, come vuole risolvere il problema urbanistico. Tanto per essere chiari e concreti: qual è la città del modello socialista? è la metropoli superdimensionata? è la piccola città di carattere tradizionale? è qualcosa di intermedio tra la città regione e il sistema metropolitano articolato? è un'entità omogenea o bisogna ricercare la soluzione del sistema urbano secondo le vocazioni e le caratteristiche territoriali, storiche e culturali dei vari ambienti? e come, e secondo quali criteri? VI è da questo punto di vista una copiosa ricchezza di possibilità di inventiva, di modelli, che non è stata ancora messa al servizio del socialismo. Il socialismo deve awalersl dell'immensa capacità di controllo e di guida che la società ha acquisito e alla quale soltanto il socialismo può dare un senso. Perché la democrazia, essendo essa stessa un mezzo, non può guidare, ma deve essere guidata. Questa è la ragione profonda dell'illusione tecnocratica e la giustificazione razionale dell'alternativa socialista Luciano Barca Siamo entrati in una fase nuova, complessa D. Partiamo da un'analisi del periodo del centro-sinistra. Analisi che voi comunisti avete iniziato, su Rinascita, in occasione del congresso del PSI. Vorremmo che tu la sviluppassi, in particolare sotto il profilo della politica economica. A. A questo nostro sforzo di riflessione sul centro-sinistra non mi pare che ne corrisponda uno analogo da parte dei protagonisti di quell'esperienza. Esperienza - va precisato - che ci ha visti all'opposizione in un modo particolare, evidentemente non allo stesso modo con cui siamo stati all'opposizione del centrismo o del centro-destra. Qui bisognerebbe tornare al momento del decollo del centro-sinistra, al '61-'62, e ai diversi accenti che allora furono messi sulle convergenze programmatiche, non solo tra i protagonisti del centro-sinistra, ma anche fra il complesso delle forze che avevano dato vita al centro-sinistra e noi. Qualcuno di noi mise allora l'accento sui • pericoli • del centro sinistra (pericoli di integrazione della classe operala) e quindi sottolineò soprattutto le divergenze; altri lo vide con troppo ottimismo, come un passo in avanti nella direzione giusta, le convergenze con noi essendo molto più rilevanti delle divergenze. Entrambe queste posizioni vanno oggi ripensate criticamente. Se andiamo a rivedere le posizioni del Partito Comunista del '62-'63, ne risulta confermato il giudizio secondo cui il centro-sinistra avrebbe portato la lotta e lo scontro ad un livello più elevato. La lotta della opposizione si è collocata su un terreno più impegnato, pitl precisato, rispetto alla lotta più elementare ma per questo anche più arretrata contro lo scelbi• smo, il degasperismo o Il tentativo di Tambroni (in momenti cioè in cui predominava la lotta per la difesa della libertà e

8 della democrazia). Nello stesso tempo risulta anche confermato il giudizio secondo cui ci si illudeva quando si credeva di poter attuare le riforme in modo pressoché indolore. lasciando immutato il modello di sviluppo. In fondo la filosofia del centro-sinistra era quella di continuare ad affidare la crescita del reddito ai meccanismi che l"avevano sostenuta fin"allora, supponendoli stabili per un periodo indefinito. D. Questo rilievo si può fare ad una parte del Partito Socialista, non a tutto. R. Questa illusione è stata tipica di tutte le forze del centro-sinistra, salvo piccole minoranze. La maggioranza del Partito Socialista partecipò di questa illusione. Non dimentichiamoci che siamo andati al centro-sinistra in una situazione di involuzione del Partito Socialista, di allentamento dei suoi rapporti con il Partito Comunista, di divisione della classe operaia. Se il Partito Socialista fosse stato convinto che fare le riforme richiedeva una modifica profonda del meccanismo di accumulazione, credo che avrebbe giudicato impossibile andare a un'operazione di tale portata percorrendo tappe come Pralognan, l'unificazione socialista, il superamento della divisione con la socialdemocrazìa e l'approfondimento delle divergenze con il Partito Comunista, il quale peraltro si trovava in una fase di profondo ripensamento critico iniziato nel 1956. Mi pare quindi che la critica debba essere fatta alla maggioranza del Partito Socialista. In definitiva il programma che scaturi dal famoso convegno dell'Eliseo - su cui noi demmo giudizi fin troppo benevoli - patì l'illusione di poter procedere alle riforme con i residui di quello che sarebbe stato prodotto da un meccanismo di accumulazione sostanzialmente immutato. D. Negli anni Cinquanta, comunque, la sinistra aveva ritenuto quel meccanismo di sviluppo incapace di creare un reddito diffuso, mentre negli anni Sessanta lo stesso Partito Comunista ha modificato tale giudizio. R. Oui dovremmo anzitutto affrontare una serie di nodi teorici. Primo nodo teorico, non ancora completamente sciolto, è l'errore di valutazione culturale - di cui siamo stati tutti responsabili - In base al quale abbiamo collocato in modo sbagliato la fine del periodo della Ricostruzione. C'è uno studio interessante, pubblicato recentemente anche in francese, di un professore di matematica ungherese, Ferenc Janossy, genero di Lukacs (il titolo del libro è La fin des miracles). che mette in evidenza tale errore, commesso tanto nei paesi socialisti quanto nei paesi capitalisti. Credemmo la Ricostruzione finita una volta tornati ai livelli di reddito e di produzione del 1938. In realtà, sostiene lo Janossy, deve intendersi finito il periodo della Ricostruzione (cui corrisponde uno sviluppo estensivo «facile• e quindi un alto saggio di sviluppo del reddito) solo quando, dopo la crisi della guerra, si raggiunge nei vari paesi colpiti da distruzioni il livello che sarebbe stato teoricamente toccato qualora le distruzioni stesse non ci fossero state e tutte le risorse del Paese avessero continuato a crescere (e ad essere totalmente utilizzate: si introduce poi il concetto molto importante di reddito potenziale) con lo stesso trend di prima. Janossy ha individuato questo punto di ritorno al trend • normale • per vari paesi e ha trovato date molto posticipate rispetto a quelle considerate finora. Si possono muovere talune obiezioni ad un certo determinismo del trend che è a monte del ragionamento dello studioso ungherese, ma c'è nei suoi calcoli una verità e un insegnamento prezioso. Occorre poi considerare che in Italia, dato il periodo fascista e l'autarchia che lo aveva caratterizzato, determinati fattori di lungo periodo quali la liberalizzazione degli scambi, il passaggio dall'autarchia alla collaborazione internazionale prolungarono un periodo eccezionale in cui marciarono insieme lo sviluppo intensivo e lo sviluppo estensivo. Negli anni cinquanta non valutammo correttamente tutto ciò. Tuttavia nonostante l'elevatezza dei ritmi dello sviluppo e nonostante che le risorse fossero in Italia abbastanza cospicue (piu di quanto si potesse immaginare). esse erano e sono insufficienti rispetto all'ampiezza dei problemi storici che si ponevano e si pongono nel Paese. Basti pensare alla questione meridionale per rendersi conto di come, nonostante Il ritmo di crescita, cl

trovavamo in una situazione di risorse non adeguate a risolvere contemporaneamente i problemi dello sviluppo Intensivo e dello sviluppo estentivo. l"aggravarsi del problema della competitività e l'attuale politica hanno fatto precipitare questa contraddizione. Esiste dunque un problema di quantità delle risorse ma, come siamo andati sostenendo sempre più lucidamente negli ultimi anni, il problema della quantità dello sviluppo è legato al problema della qualità, e quindi a una modifica del meccanismo di accumulazione. In primo luogo occorre modificare l'attuale rapporto tra settore produttivo e settore improduttivo, rapporto che tanto il centro-sinistra quanto il centro-destra, fino agli ultimi atti del governo Andreotti, hanno continuato a peggiorare. Oggi solo una persona su cinque può essere considerata in Italia un lavoratore produttivo. D. Proprio rispetto a questi problemi c'è stata una dialettica interna al centro-sinistra che non si può trascurare. Basti pensare alle vicende della nazionalizzazione della energia elettrica, al tentativo di riforma urbanistica, al tentativo di riforma della casa, battaglie che si sono risolte oggettivamente in una vittoria delle forze moderate del centro-sinistra, ma che sono state caratterizzate da una vivacità interna alla coalizione che il Partito Comunista non ha sempre saputo valorizzare. Alcuni del protagonisti del progetto di riforma urbanistica hanno detto che in quel momento I sindacati non Il aiutarono. la riforma urbanistica mori senza clamore. R. Non credo si possa negare che ci sia stato da parte nostra un continuo tentativo di stimolo critico e di aiuto alle forze che cercavano di operare nel modo migliore all'interno del centro-sinistra. Quando parlavo prima di opposizione particolare, mi riferivo proprio a questo. Noi abbiamo combattuto il centro-sinistra nella consapevolezza che non si trattava soltanto di condurre una battaglia dall'esterno ma anche di fare una battaglia in collegamento con le forze che dall'interno spingevano verso determinate soluzioni. Oui naturalmente I temi da affrontare sarebbero parecchi. Innanzitutto cl sarebbe da ripensare criticamente a tutto Il discorso sulla programmazione e al tempo che si è perduto Inseguendo un disegno tutto sommato tee9 nocratico, sganciato dalla realtà. E' un grosso tema. Il secondo tema che si deve ripensare è quello del rapporto con i sindacati, che è stato impostato dal centro-sinistra in modo sbagliato per il prevalere di quella concezione tecnocratica della programmazione. Ed eccoci di fronte alla polemica sulla politica dei redditi, tema che, se non ha raggiunto in tutte le forze del centro-sinistra gli accenti ossessivi che ha avuto in la Malta, è stato portato avanti anche da parte di alcune componenti del Partito Socialista. Si è coltivata l'illusione che il rapporto più utile con i sindacati potesse essere un rapporto triangolare a tavolino: una cosa che se non era politica dei redditi, poco ci mancava. E ciò senza rendersi conto che ad una programmazione che avesse voluto veramente incidere nell'intreccio tra rendita e profitto era essenziale una libera dialettica e una vera autonomia sindacale. Il centro-sinistra ha sbagliato su questo tema non soltanto per un vizio culturale. In realtà il centro-sinistra ha sempre patito la delimitazione della maggioranza a sinistra, e un proclamato non rapporto con il Partito Comunista, da una parte, e la consapevolezza che non si potevano fare certe cose senza il contributo della maggioranza della classe operaia, dall'altra. Si è tentato di aggirare l'ostacolo e di risolvere questa contraddizione cercando di instaurare il rapporto in sede sindacale anche su temi e terreni che sono propri della sfera politica. E ciò ha portato ad una confusione e a un peggioramento della situazione. E' interessante notare che proprio quelli che tuonavano contro il pansindacalismo, tendevano poi a fare dei sindacati i protagonisti di tutto, fino al punto che in certi momenti il parlamento avrebbe dovuto limitarsi a registrare quello che il sindacato aveva fatto. Ciò è awenuto, ad esempio, per la riforma della pubblica amministrazione. E questo non tenendo conto che nella lotta del sindacato degli statali non può non prevalere un momento corporativo rispetto ai momenti degli interessi generali della società Il momento sindacale è indispensabile ma non è sufficiente. Anche in noi ha pesato in taluni casi una visione troppo sindacale dei problemi. Anche per questo errore - da noi ricono-

10 sciuto pubblicamente durante il tredicesimo congresso - la lotta per le riforme è stata vista come prevalente proiezione e continuazione della lotta operaia: quello che abbiamo chiamato un operaismo di fatto. In questo modo le riforme non muovevano le grandi masse e un grande blocco di alleanza. A volte, ha pesato una sfasatura, di contro, tra lotta sindacale e battaglia parlamentare. E questo proprio perché la lotta sindacale ha una sua logica, le scadenze contrattuali e determinate vertenze. Ma anche il calendario parlamentare ha delle scadenze. E noi ci siamo trovati a volte in situazioni in cui questi due calendari non coincidevano tra loro. Noi da una parte pensavamo di affidare la lotta per la riforma urbanistica, ad esempio, al sindacato il quale però in quel momento era occupato in una grande lotta contrattuale. Abbiamo avuto parecchie di queste sfasature: sulla casa, sulla sanità, sulla riforma della pubblica amministrazione. Ne abbiamo avuto una perfino sulla lotta per le pensioni. Abbiamo sfondato solo quando siamo riusciti a trovare un momento di raccordo tra la lotta per le pensioni in sede politica-parlamentare e in sede sindacale. La prima volta siamo stati sconfitti perché c'è stata questa sfasatura. Se poi vogliamo andare ancora oltre in questo discorso della verità, dobbiamo tener conto che alla delimitazione di principio nei riguardi dei comunisti si contrapponeva poi nella pratica da parte della DC e del governo una continua trattativa con essi in sede parlamentare. E ciò è continuamente avvenuto, chiunque sia stato il capogruppo democristiano, fino ad Andreotti, perché altrimenti il parlamento non avrebbe funzionato, data la nostra forza e il nostro peso che non si possono evidentemente ignorare. L'assurdo è che la trattativa è avvenuta non già sulle grandi linee, ma proprio per questo suo carattere di compromesso parlamentare in extremis, su alcuni nodi parziali. Il che ha avuto un prezzo. Per cui alcune leggi sono nate in modo distorto, con un determinato quadro di impostazione e poi con una serie di contraddizioni interne dovute ai rapporti di forza che di volta in volta si stabilivano in parlamento. Le cose sarebbero andate ben diversamente se avessimo avuto un ribaltamento di quest'impostazione. E noi abbiamo cercato di operarlo ad esempio proprio quando si avviò il discorso sulla programmazione. Nessuna forza può imporre una programmazione democratica, che comunque comporta sempre un certo momento di coercizione, senza un rapporto serio con il partito comunista. Da qui la nostra proposta: accordiamoci sulle grandi linee della programmazione, stabiliamo su queste un rapporto delle grandi componenti popolari - ciò che non voleva dire il Partito Comunista al governo o anche solo nella maggioranza - mentre restiamo differenziati su una serie di fatti anche cospicui, sostanziosi. Procedendo in tal modo, su alcune grandi scelte di fondo e sui tempi di attuazione per renderle compatibili fra di loro e con tutto il resto, si poteva trovare un accordo. Abbiamo avuto invece una trattativa su una serie di cose sminuzzate ed è chiaro che ciò ha finito per aggravare il quadro generale. Anche tenendo conto di ciò oggi noi diciamo che non si tratta di tornare al centro-sinistra ma di invertire la tendenza in direzione di un incontro tra queste tre componenti sulle grandi scelte e sulle grandi linee e sulla prospettiva di questa società. Il che non significa che il Partito Comunista deve andare subito al governo. e non esclude una serie di fasi intermedie che è inutile stare qui a disegnare a tavolino in quanto dipendono dai fatti, dalle lotte, dai rapporti concreti tra le varie forze poi itiche. Se non si realizza questo incontro, noi possiamo correggere gli aspetti peggiori del centrosinistra ma non usciremo stabilmente dalla crisi. D. Supponiamo che il quadro politico si decantasse. Nell'ambito della politica economica quali sono le due o tre cose compatibili tra loro per un diverso meccanismo di sviluppo da proporre? Quali sono cioè i due o tre temi sui quali fare perno in un momento del genere? Tenendo presente che voi comunisti avete fatto dei passi importanti In questa direzione ultimamente. Quando Berlinguer dice • alt alla mano pubblica •• cl pare che teoricamente ■i vada In una direzione ben diversa da quella dell'accordo ■oclalistl-comunlstl In Francia, dove ■i punta tutto sulle nazionalizzazioni. R. Per l'avvio di questo incontro è necessario prima di tutto un approfondimento comune, attraverso un confronto sulle carat-

teristiche della fase del capitalismo che stiamo vivendo. Abbiamo parlato a tal proposito di fase del capitalismo monopolistico di stato. Riprendendo e parafrasando un concetto e una definizione di Lenin, io l'ho ribattezzata • fase del meccanismo unico •- Una fase in cui politica ed economia tendono appunto ad integrarsi in un meccanismo unico, condizionandosi reciprocamente. Mi pare che sul piano culturale, l'operazione da compiere sia un approfondimento di questo problema. Ci troviamo in una fase in cui l'intervento dello stato diventa una necessità non soltanto per la grande impresa ma anche per la piccola impresa. La continuità di questo intervento crea una situazione abbastanza ambigua in cui c'è il rischio dell'integrazione del momento politico nel momento economico e quindi il rischio dell'integrazione del sindacato, della lotta, nelle cosiddette leggi dell'attuale sistema. Questo è il primo momento della bivalenza. Ma c'è il risvolto della medaglia: la possibilità per la classe operaia di pesare a livello politico nella stessa economia. Per la verità noi comunisti siamo stati i soli ad affrontare questo problema dal punto di vista teorico In tutte le sue implicazioni. Implicazioni per cui oggi, ad esempio, nessuna impresa è fino In fondo privata e nessuna è fino in fondo pubblica. Il che non vuol dire che non ci sia piu differenza tra l'una e l'altra. La distinzione rimane perché resta importante stabilire chi è il soggetto delle decisioni dell'impresa, ma la distinzione va analizzata all'interno di questa nuova fase del capitalismo di cui prima parlavo. D. Ti Inviteremmo a fare un'analisi dell'Intervento publlco In questo decennio, cominciando ad esempio dalla nazionalizzazione della energia elettrica. R. Credo che l'intervento pubblico abbia profondamente inciso sul tessuto strutturale della nostra economia. A parte Il fatto che se Il settore pubblico non si fosse Impegnato In prima persona negli Investimenti, avremmo oggi una crisi di proporzioni ben plu gravi e drammatiche di quelle che stiamo vivendo. Per ciò che riguarda Il decennio direi che Il centro sinistra parti con una operazione necessaria e giusta, la nazionalizzazione dell'energia elettrica. Operazione matura e perfino ovvia, anche 11 perché ci trovavamo di fronte ad una situazione tipica di intreccio di profitto e rendita. Soltanto che questa operazione è stata gestita male per quanto concerneva il pagamento degli indennizzi. Visto che la Costituzione stabilisce che bisognava pagarli, lo si poteva fare in modo diverso, ma soprattutto si poteva condizionare questo pagamento a scelte di reinvestimento. Invece noi abbiamo praticamente finanziato una serie di operazioni in cui il momento della speculazione finanziaria ha sempre prevalso sul momento della strategia economica e industriale. Quei famosi 1500 miliardi sono venuti a pesare sulla situazione italiana, aggrovigliandola sempre piu e determinando un processo dominato dalla ricerca del successo finanziario e del potere. Mi riferisco per esempio ai fondi della Montedison. Insomma abbiamo cominciato con un'operazione giusta, necessaria, ma gestita male soprattutto per carenza dello schieramento sociale e politico che l'ha condotta. Si dice che tutto poteva essere risolto dalla programmazione. Non lo credo. Considero la programmazione strumento necessario ma non sufficiente di intervento. Oggi cioè il problema che si pone non è soltanto quello di ricondurre tutte le scelte dell'industria pubblica e dell'industria privata dentro un discorso di programmazione ma di utilizzare meglio quello che è già pubblico e che quindi dovrebbe essere determinato da scelte pubbliche. Naturalmente quando dico questo non penso assolutamente a scelte di tipo amministrativo. Non dobbiamo dimenticare che quando parliamo di impresa pubblica parliamo di un'impresa, il che significa non coattività per la provvista dei mezzi finanziari necessari alla gestione. Questi mezzi finanziari debbono derivare dal credito ordinario e simili mentre il patrimonio iniziale può essere dato dallo Stato. Quella pubblica è dunque un'impresa, che deve però essere subordinata ad un soggetto pubblico per la determinazione dell'Indirizzo della sua attività economica. Noi abbiamo avuto spesso, invece, una serie di operazioni sbagliate o deviate rispetto a questa concezione e a queste due caratteristiche dell'Impresa pubblica. In alcuni momenti cioè abbiamo avuto il prevalere di decisioni burocratiche, ammlni-

12 strative, mentre la determinazione di alcune scelte fondamentali veniva lasciata al mercato, alla concorrenza, alle competizioni con altri gruppi. Noi oggi abbiamo non soltanto scontato il modo in cui è stata fatta l'operazione della nazionalizzazione dell'energia elettrica, ma abbiamo scontato il fatto che l'Eni, l'lri, l'Efim e anche l'lmi, anche se hanno avuto un ruolo abbastanza importante per sostenere l'attuale tipo di sviluppo, non hanno avuto nessun ruolo nel tentare di modificarlo e di orientarlo verso nuove scelte. In definitiva all'interno degli stessi gruppi delle Partecipazioni statali hanno finito spesso per dominare scelte finanziarie, di potere e non di strategia industriale. Non solo non abbiamo avuto una determinazione realmente pubblica delle scelte ma all'interno stesso dell'lri, per il suo carattere di conglomerato, dell'Eni, per problemi di competizione, hanno finito per prevalere nelle scelte momenti finanziari e anche momenti di potere. Di ciò va tenuto conto per riformare il sistema delle Partecipazioni statali: non per togliere efficienza e autonomia di gestione alle aziende, ma per subordinarle realmente ad un piano definitivo in sede politica per ciò che riguarda le grandi scelte. Piu volte noi abbiamo detto che in Italia non sono tanto necessarie nuove nazionalizzazioni quanto l'efficiente e democratico funzionamento di quel che è già pubblico, e ciò si può ottenere con la riforma delle Partecipazioni statali. Questo potente strumento ci può davvero aiutare a modificare il meccanismo di sviluppo, e ad orientare l'economia italiana in modo diverso dando alla programmazione delle possibilità che non esistono negli altri paesi occidentali. Questi strumenti vengono usati oggi molto male. Non solo il parlamento ma nemmeno l'esecutivo ha mai fatto delle scelte consapevoli per quanto riguarda l'indirizzo delle Partecipazioni statali. Sono le singole imprese che trasmettono le loro scelte all'ente e questo, a sua volta, le strasmette al ministero. Questa è la realtà. D. In effetti gli investimenti dell'lri e dell'Eni hanno salvato in alcuni periodi, di depressione, il sistema economico; ma non c'è dubbio che in altri momenti c'è stato un loro orientamento non del tutto comprensibile. Ciò, ad esempio, secondo alcuni economisti, sarebbe avvenuto negli anni successivi alla crisi del '63-'64. Sono molte le scelte e gli orientamenti non comprensibili dell'lri e dell'Eni dal punto di vista degli obiettivi di una ripresa qualificata: Mezzogiorno, agricoltura, livelli e qualità dell'occupazione, ruolo e condizione della classe operaia. Quindi bisogna fare una riflessione molto approfondita sul modo con cui sono diretti gli strumenti dell'intervento pubblico, sia gli strumenti del credito e piu in generale finanziari, sia le aziende pubbliche, sia le aziende a partecipazion statale. Il punto di partenza di questo ripensamento è che non si tratta di perdere determinate caratteristiche di efficienza e di imprenditorialità, ma di tenere ferme quelle che rendono pubblica un'azienda. Quel che rende pubblica un'azienda, ripeto, non è tanto il fatto che c'è un misto di mercato e di momento amministrativo (perché qualsiasi piccola azienda dipende dalla legge 614, dalla Cassa per il Mezzogiorno, da un finanziamento pubblico, da un incentivo o da un'autorizzazione) quanto il fatto che essa è subordinata ad un soggetto pubblico per la determinazione dell'indirizzo dell'attività economica. Qui si tratta di stabilire innanzitutto qual è questo soggetto pubblico e quali garanzie di democraticità esso è in grado di dare. Ciò presuppone e porta con sé tutto il discorso sulla democrazia, sullo Stato, sulle regioni, sui centri reali di decisione, sulla partecipazione dal basso sugli stessi poteri reali dell'esecutivo. Dall'altra parte bisogna stabilire quale deve essere e come deve esplicarsi questa determinazione pubblica e quindi delineare momenti di sintesi e di coordinamento affinché non si abbia la dispersione ma la cospirazione verso quelle scelte che vengono indicate come prioritarie. D. Veniamo adesso al settore della politica del credito e piii in generale della politica finanziaria e monetaria, tenendo conto di un fatto fondamentale e cioè che si tratta di un settore teoricamente controllato dallo Stato. Non si può dire che il PCI, e anche le altre forze di sinistra, si siano soffermate su questo problema con la dovuta attenzione. Avete si portato avanti una critica serrata, ad esempio, della politica monetaria di Carll, ma non siete andati oltre la polemica.

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