giovane critica - n. 31/32 - autunno 1972

90 quest'affermazione, anche di un senso estremamente vitale: e quest'affermazione politica determinata è quella che nell'àmbito di Classe operaia è stata chiamata del • partito in fabbrica •. Tronti dice, ad un certo punto: il partito non può rientrare in fabbrica, se innanzi tutto la fabbrica non vive nel partito: se la linea del partito non contiene dentro di sé la produzione, nella fabbrica, quali che siano le strutture organizzative del partito, le sue forme istituzionali, e cosi via. E dice questo, direi, come sacrosanta risposta a tutta una serie di discorsi formali sulla democrazia di partito, sulle strutture del partito e cosi via, dietro i quali si sono esauriti gli sforzi di molti marxisti, di molti militanti rivoluzionari negli ultimi anni, esauriti proprio perché veniva perso di vista il contenuto vero di una polemica rivoluzionaria. Ma se è vero che il problema fondamentale è quello di una linea, e il problema della linea è quello che caratterizza forse la stessa struttura organizzativa del partito, non dobbiamo pensare anche che la correttezza di questa linea dipenda dal rapporto corretto che il partito riesce a stabilire con la classe, e a mantenere, al di là, anche, o indipendentemente da quelle deviazioni tattiche che il partito, come vedremo, deve essere disposto ad accettare se si costituisce come forza massiccia di azioni e non come semplice gruppo minoritario? Cioè, anche in questo caso, stabilita la distinzione tra classe e partito, non risorge forse un problema del rapporto fra questi due momenti, e, questo problema non è forse il problema che potremmo chiamare della composizione di classe del partito di classe, o il problema del controllo della classe operaia sul partito operaio? Non esiste cioè un problema, non di strutture organizzative, ma il problema della struttura di classe del partito? E questo mi pare un punto da cui forse si possono cavare anche molte considerazioni politiche, a patto appunto, che lo si voglia approfondire. La stessa cosa, secondo me, o le stesse cose si possono dire a proposito di un altro punto fondamentale del discorso di Tronti: la distinzione fra tattica e strategia. Ricorre infatti continuamente nei saggi di Tronti quest'altra affermazione, la cui validità e la cui importanza anch'esse mi sembrano decisive: la tattica come intervento pratico, quotidiano, del partito estate 1967 nelle lotte non può essere modellata totalmente sulla strategia, anzi, quando ciò avviene, si va incontro alla sconfitta; e non poche delle sconfitte operaie derivano proprio dal fatto che, secondo Tronti, la classe ha una spontanea intuizione della propria strategia, ma non ha nessuna coscienza e nessun dominio sui movimenti tattici. La distinzione teorica fra la tattica e strategia porta immediatamente con sé, dentro il pensiero di Tronti, una distinzione, direi, di rapporti fra classe operaia e strategia da una parte, tra il partito e la tattica dal l'altra. Per quanto riguarda la strategia generale dei movimenti della classe operaia, il partito non ha da fare altro che intervenire, a capire e a conoscere dentro la classe operaia ciò che la classe operaia già conosce, cioè i movimenti strategici propri e i movimenti strategici contrapposti del capitale. Ma il momento della tattica, questo è tutto demandato al partito. Scrive appunto Tronti: • Quello che viene chiamato in genere la coscienza di classe, è per noi nient'altro che il momento della organizzazione, la funzione del partito, il problema della tattica • D. Ecco, anche in questo caso io vorrei porre a Tronti un quesito analogo a quello che ho posto relativamente al problema dei rapporti fra classe e partito: ponendo la distinzione fra strategia e tattica, non ne nasce un problema dei rapporti fra questi due momenti? Stabilita la separazione fra discorso tattico e discorso strategico, esiste qualcosa che continua ad assicurare il rapporto fra questi due momenti, esiste il rapporto fra questi due momenti, esiste la possibilità di garantire in qualche modo che i movimenti tattici si svolgono complessivamente nella direzione segnata dalla strategia, anche quando ne negano o ne contraddicono alcuni momenti particolari? Cosa distingue in definitiva, un partito rivoluzionario da un partito opportunista e liquidatore, se non la capacità permanente di incanalare tutti i movimenti della tattica nell'alveo globale della strategia? Ecco, anche qui mi sembra che Tronti sia incline a considerare risolvibile il problema nella figura individua dei singoli dirigenti. C'è un'affermazione che curiosamente ritorna molte volte nel libro, dico curiosamente perché questo è un libro in cui in genere non esistono ripetizioni. E questa affermazione ve la leggo in tre o quattro esempi dei pili significativi, a testimonianza, direi

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