giovane critica - n. 31/32 - autunno 1972

Leonardo Sciascia primavera 1966 morte di In Elio Vittorini La notizia che Vittorini è morto me l'ha data Calogero Boccadutri: domenica _ mattina, tredici febbraio, appena uscito di casa. L'ultima volta che ho visto Vittorini, appunto abbiamo parlato di Boccadutri. Come ogni volta, mi ha domandato del vecchio compagno - • E Boccadutri, che fa Boccadutri? • - ma stavolta mi ha raccontato con piil particolari la storia di come lo aveva conosciuto. Mandato dal partito comunista a Caltanissetta, con una valigia piena di pubblicazioni clandestine, vi era arrivato di notte. Era tempo di guerra, il treno portava grande ritardo; e gli toccò passare la notte nella sala d'aspetto della stazione: affamato, paraliz• zato dal freddo. Appena fatto giorno sali in centro, dove già la sera prima avrebbe dovuto incontrare una persona che non conosceva e che non lo conosceva. E Vittorini ancora si chiedeva come avesse fatto Boccadutri a individuarlo cosi immediatamente e sicuramente, ad avvicinarglisi senza quelle precauzioni che allora erano elementari, considerando che un errore di persona poteva portare al carcere diret· tamente. Vittorini disse a Boccadutri della sua fame: e Boccadutri, che viveva solo, subito gli preparò un piatto di spaghetti. Il ricordo di quel piatto di spaghetti, alle otto del mattino, lo divertiva e lo commuoveva. E a sentirglielo raccontare a me veniva di pensare che attraverso Boccadutri, attraverso quel ricordo, Vittorini toccava uno dei punti dolenti della sua storia. Perché quando Togliatti, con pesante ironia liquidò le ultime battute della sua polemica con Vittorini intitolandole • Vittorini se n'è ghiuto e suli ci ha lassato •, era - appunto come Togliatti intendeva - Vittorini ad essere rimasto solo: ma non per aver perduto la compagnia di uomini come Togliatti, ma quella di uomini come Boccadutri. La sua domanda - • Che fa Boccadutri? • - e la mia risposta - • Lavora sempre per il partito • - erano in definitiva il senso del dramma di Vittorini, di una delle due facce del suo dramma di uomo e di scrittore. Vittorini, nel suo lavoro, aveva bisogno di quel tipo di uomo di cui dice Gramsci in una lettera: • Molti anni fa, nel 19 o 20, conoscevo un giovane operaio, molto ingenuo e molto simpatico. Ogni sabato sera, dopo l'uscita dal lavoro, veniva nel mio ufficio per essere dei primi a leggere la rivista che io compilavo. Egli mi diceva spesso: - Non ho potuto dormire, oppresso dal pensiero: Cosa farà il Giappone? -. Proprio il Giappone lo ossessionava, perché, nei giornali italiani, del Giappone si parla solo quando muore il Mikado o un terremoto uccide almeno 10.000 persone. Il Giappone gli sfuggiva; non riusciva perciò ad avere un quadro sistematico delle forze del mondo, e perciò gli pareva di non comprendere nulla di nulla •. Il lavoro di Vittorini attraverso il politecnico voleva essere appunto una risposta al Giappone di ognuno (non a caso la lettera di Gramsci è stata per la prima volta pubblicata dal Politecnico): al Giappone della gente onesta e semplice; a tutto ciò che sfuggiva, che inquietava, che impediva una visione totale della realtà umana. L'altra faccia del suo dramma era la Sicilia: la sua volontà di sradicarsene e la sua impotenza a farlo se non a prezzo di quel silenzio in cui negli ultimi anni si è chiuso. La sua polemica con la Sicilia, e con me quando ci incontravamo, era piuttosto aspra. L'ultima volta che ci siamo visti mi ha detto che considerava il mio stare in Sicilia come una specie di esibizionismo: tanto gli pareva incredibile la possibilità di una vita intelligente, di una vita cosciente, dentro una realtà che immaginava prosciugata, definitivamente e disperatamente refrattaria. E aggiunse che con la Sicilia ormai altro rapporto non sentiva che quello del ricordo di certi odori e sapori: nessun sentimento, nessuna idea lo legavano piu alla sua terra. Ma il fatto che ne parlasse con tanto sdegno, e persino con disprezzo, era il segno del suo segreto

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