giovane critica - n. 31/32 - autunno 1972

fascista, quella - culturale e non - del PCI dopo il '45; e poi su tutto Il resto, fino al contrasto russo-cinese. Un ultimo avvertimento, che faccio anzitutto a me stesso perché ci sono rimasto invischiato fino a pochi mesi fa: non lasciamoci intrappolare nel mito del • rinnovamento culturale •, e della • nuova metodologia •. Bisogna rendersi conto che la possibilità di una critica di contestazione, alternativa al sistema - che le dia la capacità di comprendere per cambiare - esiste solo nella misura in cui esiste una • negazione • reale nella società, • il Partito •. Perché anche il nostro • gusto • è semplicemente il punto di arrivo di un lungo processo pratico-concettuale, che coinvolge tutto il nostro atteggiamento (morale) verso la società e insieme richiama l'esistenza di una mediazione reale, di un punto di riferimento in cui riconoscersi; ancora, • il Partito •. Ecco allora come la socialdemocratlzzazione del movimento operaio italiano, il riformismo ormai storico del PCI ci riguardano personalmente, quanto a incapacità di reagire, e cosi di pensare una metodologia diversa ed efficace. Non volevo in poche righe proporre dei programmi o dei piani di lavoro: mi basta esprimere l'esigenza che si parli • in un certo modo •. E ritengo sinceramente di rivolgermi a un • terreno amico •. So bene come tu sia sensibile a queste cose, e, quanto a Giovane critica, ho l'ambizione di parlare affatto • all'interno • della sua impostazione. Carissimi saluti Guido Fink inverno 1966 Caro Mughini, Caro Mughini, il numero d'autunno di Giovane critica, che mi è appena arrivato e ho potuto soltanto sfogliare, mi ha ricordato il mio pessimo comportamento nei tuoi confronti, comportamento dovuto solo alla mancanza assoluta di tempo, e del quale comunque ti chiedo molte scuse. Mi hai chiesto un saggio sul western e non ho potuto farlo; mi hai gentilmente proposto di sostituirlo con un meno impegnativo, piu rapido articoletto sul ciclo televisivo di Zinnemann, e non sono riuscito, almeno finora, a trovare il tempo necessario nemmeno a questo. Del resto, non vedo perché dovrei nasconderti che dietro alle mie esitazioni ,sussistono anche motivi meno occasionali. Il primo, sul quale penso l'accordo sia pacifico, riguarda il limitato interesse che riveste oggi Zinnemann per me e, penso, per i tuoi lettori: i valori di questo regista emigrato a Hollywood dall'Europa nazista, e impegnato a inserire un discorso di una certa coerenza nell'àmbito delle strutture hollywoodiane, erano appunto valori relativi, che potevano risaltare dal contrasto fra i suoi film (siglati dal Leone della Metro) e gli altri polpettoni che la stessa Casa sfornava a quell'epoca per le platee di tutto il mondo, assetate di lagrime e di romanzoni ben costruiti e conditi con le ricette del divismo e del happy end. Tali valori alla televisione non si possono ovviamente cogliere: il ciclo diviene appunto • retrospettivo •, e imponendosi ufficialmente come • spettacolo dotato di valore culturale • nelle case e nei tinelli di mezza Italia, si traduce in un assoluto dagli evidenti limiti Interni. Oui il discorso diverrebbe lungo, e coinvolgerebbe tutto il sistema di fruizione dei film - non esclusi gli Eisenstein, I De Sica, i Truffaut - da parte degli spettatori televisivi. In tale discorso, la dignità relativa di Zinnemann - evidente non tanto

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