giovane critica - n. 15/16 - primavera/estate 1967

le punte maliziose nel brodo di un divertimento consueto. Prendete la visita dell'importante prelato, accompagnato da una specie di abatino, al negozio del grossista. La falsa devozione· di Sordi e dei suoi commessi: preparativi meticolosi, s'inginocchia e bacia l'anello del sacerdote, in entrata e uscita; sembra di primo acchito una caricatura (insieme) dei due prelati e del grossista, ossia della frivolezza ecclesiastica e della devozione formale e interessata: Sordi sciorina le stoffe e i broccati, le commesse scodinzolano ossequiose, l'impiegata procace viene inquadrata nei particolari e in primo piano e poi scostata per non turbare la vista. Il grossista incanta con la parlantina, i due preti si consultano come dame cerimoniose, scelgono una stoffa preziosa, pagheranno poi: andirivieni di stoffe, commessi, oggetti frivoli, parole pubblicitarie. Terminato il negozio, si riforma il corteo, torna la devozione alla romana. Ecco dunque la doppia faccia della scena: comincia con la caricatura della devozione e si rovescia nel divertimento da barzelletta: il pezzo di bravura di Sordi, le chiappe e le poppe straripanti della commessa, e via. La vicenda entra in ambienti che fuorviano: il lusso che riempie l'occhio, la calamita degli oggetti nella casa del protagonista : lo spettatore guarda, si distrae; i luoghi seducenti : Rocca di Papa, il lago, i punti turistici di Roma, la boutique all'angolo di Piazza di Spagna con la merce beat, ecc. A pimentare l'impasto narrativo cala nella vicenda la schiera delle figure femminili, fino al momento in cui, congedatasi amichevolmente l'hostess svedese, il film termina con il cambio della guardia: uno schianto di ragazza dai capelli fiammeggianti inquadrata dal basso, all'aeroporto, e seguita dalla macchina da presa mentre si avvicina al protagonista. Insomma avviene il processo d'identificazione da parte dello spettatore, ma per invidia; come dire: beato lui, magari toccasse a me, anche una sola per me andrebbe bene. E allora la conclusione. Lo spettatore esce dal locale. Pensa? A favore del divorzio? Contro il divorzio e il matrimonio all'italiana? Niente, andate dove vi propone di andare l'industria della cultura: ossia non esiste un problema, uno scrupolo, un'asprezza, ma solo un consumo; non dovete pensare a niente di scomodo, non dovete pensare a niente: l'industria culturale serve capra c cavoli, abbranca tempestivamente un tema, lo fagocita e lo deposita invertebrato, consumato, inesistente: occupiamo dunque il « tempo libero "· D'accordo, ma ora ci rifaremo il palato, mutiamo regista: si va a teatro a vedere Emmeti o al cinema per Le streghe o magari Fahrenheit 451 o Un uomo, una donna. E qui numerosi competenti si sdilinquiscono in complimenti, si sbrigano situando il film tra parentesi, o ritagl iaado qualche particolare gradevole o acuto, inventivo; naturalmente si tolgono il cappello quando passa nel film la firma del « maestro " e ne giustificano la distrazione ( il riposo del poeta): un peccato veniale di cui il « maestro n pare vittima, ma in fondo riscattalo dal genio, dall'arte, dall'impegno satirico. E invece si tratta di una piena operazione del sistema dell'industria culturale che agisce su piani complementari, assolda i « maestri », smorza le punte, « distrae " autori e platea. Detto altrimenti: non si può infuriare contro il cinema di consumo ed usare invece indulgenza ( o esclamativi di stima) per opere, ad esempio, come il film western di Lizzani, Vancini, Brass, Damiani, registi « progressisti-democratici »; per Emmeti di Squarziaa: tenera paccottiglia di sentimenti, verniciata da un doppio strato di gergo e gesticolazione ricavato dall'ideologia dei consumi; per le finzioni mid-cult del turbamento nel rifiuto dell'ideologia in Pietà di novembre di F. Brusati; per il manierismo di Giulietta degli spiriti o i finti scandali di Vaghe stelle dell'Orsa o per la cosidetta eleganza dei sentimenti di nostalgia nella Contessa ehapliniana; per la cucina reazionaria di Specchio segreto e Made in ltaly di Loy. E magari togliersi il cappello di fronte al passaggio dei 'nobili intenti' del film di Vancini, Le stagioni del nostro amore, il cui linguaggio languoroso, che si sbava addosso, esprime il bisogno di farci complici: ci siamo arresi, d'accordo, ma solo perché niente vale la pena, la vita va cosi, nessuno si salva. peccato che il mondo sia una mer- - 17

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