come antifascista », è proprio questo antifascismo che non spiega i limiti," gli equivoci e, in sostanza, i carallcri fondamentali di quella opposizione. La sua natura è inferita mcccanisticameote come « popolare ». Sulla base di questo giudizio, i1 critico procede nella enunciazione di ascendenze che non possiamo condividere: aozitullo la sproporzionata valutazione di una cosiddetla « tendenza realista » del primo cinema italiano, facente capo al film di Martoglio Sperduti nel buio, del 1913-'14, e ad Assunta Spina. Del primo egli vanta il fallo che il fascismo al potere « non s, accorse che quel film aveva un suo fondo decisamenk socialista, se pure di un socialismo all'acqua di rose, e lo spirito di classe vi si manifestava con evidenza e con forza »": dove è manifesta la confusione-identità dei termini « popolo » e « classe » e, parallelamente, di naturalismo e realismo, che è propria dell'ideologia antifascista. Altra convinzione di Barbaro è che la « strada maestra del realismo » fu indicata ai cineasti italiani dalle teorie e dai film sovietici. Che è senza dubbio vero nel senso di un richiamo ad un'arte fortemente caratterizzata da una CO• municazione razionale: ma, anzi tulio, esse sono state solo un elemento, e non il piu importante, della maturazione dei nosu-i giovani cineasti dell'anteguerra; poi, quegli stimoli e quelle suggestioni aderirono a un complesso di problemi affatto diverso dal clima rivoluzionario sovietico, ed ebbero uno sbocco, pensiamo, io un cinema ben altrimenti caratterizzato. E qui si rivela la intrinseca debolezza della posizione di Barbaro, quando accomuna cinema ita• liaoo e sovietico sotto la bandiera « della libertà, del progresso e della pace »; e pone gli esiti artistici nel comodo àmbito del « realismo ». Che se è del tutto insufficiente a spiegarci le grandi esperienze degli Eisensteio e dei Pudovkio, illumina di un illusorio ottimismo rivoluzionario le opere dei registi italiani. In questi presupposti si inseriscono perfettamente il linguaggio gramsciano e la terminologia resistenziale, per cui il neorealismo diventa « espressione di uno spirito nuovo, nazionale, popolare, progressista »22 e di quella « unità nazionale, popolare e progressiva » che è il grande merito della Resistenza e « il vero introito alla morale e alla poesia del neorealismo ».,. La crisi del neorealismo, lungi dal portarlo ad un riesame delle sue posizioni sulla base di una seria analisi delle mutate condizioni della società italiana, accentua la debolezza della impostazione populistica; e la vena sincera delle sue speranze non possono farci tacere i grossi errori di prospettiva, come di fronte al film di De Sica Il tetto, del 1956, che nella crisi completa di quegli anni portava avanti in maniera spenta le sue proposte morali tico-edi(icanti, tipiche cli un antifascismo ormai esaurito: « questo film - ribatte convinto Barbaro - non si limita a provocare una reazione di sdegno [ ... ] ma già enuncia, con forza, un.t evidente certezza, che assume il senso di apertura e di indicazione della via d'uscita infallibile da una situazione di ingiustizia sociale intollerabile: la certezza che l'unione della classe operaia è invincibile ». Alla tristezza per la conclusione di un itinerario critico - che è conclusion" di tante speranze, e di una generazione - si accompagna io noi il rifiuto della mistificazione che esso comporta. Sulla falsariga di questi ultimi giudizi non si contano i ripetitori, piti o meno stonati. Sostanzialmente tutta la politica culturale del Pci verso il neorealismo rispecchia un'analoga visuale: lo stesso Alicata ebbe a scrivere che bisognava considerare il neorealismo come « la corrente di rinascita di un cinema italiano libero, moderno, nazionale, nato nel solco dell'antifascismo e della Resistenza, r interprete delle esigenze di 'verità ' e di rinnovamento proprie di una cultura che voglia e possa ritrovare il suo legarne col popolo »24 • Questo motivo - cui abbiamo già accennato - dell'incontro del neorealismo col « popolo » e dei grossi equivoci che ne stanno al fondo, se nell'immediato dopoguerra poteva essere giustificabile, nel 1955 diventa grossolano e attribuisce a chi lo sostiene responsabilità gravissime: perché accredita non solo un « impe• gno » ormai agonizzante, ma la strategia politica che lo sosteneva. « Il risultato fu - osserva A. Asor Rosa - che In morte dell'ideologia antifascista, evidente sul piano creativo, venne difficilmente accettata sul piano critico e teo• rico » 25 • Ci sono « due motivi di fiducia », per il cinema italiano: cosi scriveva, nel 1948, G. Puccini. « Quali? Pri- -41
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