giovane critica - n. 10 - inverno 1966

e studi La disattenzione di Edipo 1 « A questo punto penso che debbo fornire qualche • ragguaglio su mia mog)je. Dunque Cora, che cosi si chiamava, era una donna del popolo, sarta di mestiere, figlia di una lavandaia e di un ortolano. Perché poi io, giovane borghese, figlio di borghesi, colto e agiato, avessi sposato Cora è presto detto: mi ero trovato a nascere in una società divisa in quei gironi sovrapposti che vanno su su dalle pene dell'inferno della povertà fino alle beatitudini del paradiso della ricchezza, gironi che comunemente sono chiamati classi; e vivendo nel paradiso, ero stato colpito dalla falsità che vi regnava. Questa falsità era di un genere particolare e ben preciso, era cioè l'inautenticità che è propria di ogni parodia la quale, per coloro che ne sono gli attori, non sia tale, cioè sia involontaria e inconsapevole. Ora, per contrasto con questa inautenticità, si era formato in me, con la lentezza, ma anche con la naturalezza del processo che porta alla nascita, dentro l'ostrica, del nucleo della perla, si era formato, dico, il mito del popolo come solo depositario di tullo ciò che vi era autentico al mondo. Si era nel 1947; questo mito aveva ricevuto una conferma dal fascismo e dalla guerra, due catastrofi, a ben vedere, dell'inautcnticità » (A. Moravia, L'Attenzione, pp. 9-10). Cosi Francesco Merigbi, nel Prologo al « diario » che intrattiene ispirandosi alla realtà quotidiana, di base, in previsione di una futura « proiezione » letteraria, rievoca rapidamente l'antefatto: il suo matrimonio con Cora - già 18 - madre di una bambina avuta da un tedesco - contratto nell'immediato dopoguerra: la fine di questo amore, e conseguente crisi politica, che lo spinge a passare, da un fo. glio di sinistra povero, a un ricco giornale conservatore: i viaggi come inviato speciale in paesi sottosviluppati, « una specie di droga » per dimenticare la realtà che si lascia a Roma, e che ritrova al ritorno: le soste in famiglia sempre pili brevi durante le quali si avvede, ma da lontano, come attraverso una trasparenza d'acquario, della progressiva decadenza di Cora e del crescere della figliastra. Infine il ritorno dall'Iran, con l'intenzione di scrivere un romanzo, unico modo per lui, dice, « di stabilire un rapporto autentico con me stesso e con gli altri ». Francesco aveva infatti riscontrato che « nella realtà della vita, non era possibile, almeno per lui, « agire in maniera autentica », e che quindi, in un romanzo imperniato sull'azione, quel « sottile veleno >> era filtrato irrimediabilmente, per una sorta di complicità, di simbiosi, con la vita. Nei limiti, perlomeno, in cui Francesco aveva voluto animare la propria, essere un « principio attivo » ( per le ragioni, che possiamo ben definire storiche, che avevano presieduto al suo matrimonio). Il romanzo infatti rappresentava qualcosa di diverso dalla realtà della vita: era, se vogliamo, questa realtà guardata attraverso la lente deformante del « mito >>. Non è difficile immaginare il romanzo che si era rivelato inautentico a Francesco, e che ci viene descritto come « una vicenda che non apparteneva alla sfera del vivere

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