giovane critica - n. 7 - feb.-mar. 1965

nella lotta contro i parrucconi in questione. In Italia ovviamente niente di tutto ciò, e quindi simili esperimenti testimoniano semplicemente, ripeto, il ritardo culturale, e a volte tecnico, del teatro italiano. Eppure l'esigenza di un'attualizzazione scenica dei testi classici piti vivi e problematici resta, ed è di fondamentale importanza oggi, proprio per la negativa situazione culturale delineata piti sopra, tentare di inquadrare con precisione il problema. Esaminando le esperienze straniere possiamo ricordare quelle francesi sull'altro grande classico e attualissimo», Molière. Qui il piti delle volte si è rimasti a mezza strada. E' il caso di Jean de Rigault, che, a proposito della sua edizione in abiti moderni de Le Misanthrope, dichiarava che, visto che ai tempi di Molière i personaggi delle sue opere vestivano gli stessi abiti degli spettatori, recitandole oggi in abiti del '600 veniamo a creare un diaframma tra pubblico ed opera, che porta lo spettatore a relegare in un lontano tempo pittoresco, come cosa che non lo riguarda da vicino, quello che avviene sulla scena. Che è proprio quel che Molière non voleva, e che in ogni caso castra l'opera del suo contenuto piti vivo: la satira di costume. Presupposto che condividiamo del tutto, tanto da rimaner poi perplessi vedendo un Misanthrope in abiti moderni si, ma talmente stilizzati ~ abiti da sera di taglio moderno ma di stoffe antiche per gli uomini, e una raffinata contaminatio oggi-'600 opera di Cardin in quelli delle donne - che l'operazione ancora una volta cambia di segno e accentua il distacco che voleva abolire, anche perché il solo elemento relativamente modernizzato sono i costumi, mentre tutto il resto, a partire dalla recitazione, rimane classico nel senso peggiore. Anche qui si tratta quindi di una innovazione prettamente formale, tesa a creare la e novità > che attiri il pubblico, anche se l'operazione viene condotta con abilità 64 - maggiore che nel Troilo e Cressida di Squarzina, perché Rigault furbescamente si scopre meno, evitando i danni che, portando fino in fondo l'operazione senza aver studiato seriamente il problema, avrebbe sicuramente causato nell'equllibrio interno dell'opera. La maggior parte insomma delle esperienze di questo genere, oltre quelle fin qui delineate, soggiacciono a un diffusissimo vizio di fondo: il rinnovo puramente formalistico del repertorio classico, vizio che viene bene analizzato da Brecht e Piscator, i pili significativi esponenti della cultura teatrale che ha cercato con maggior rigore e coerenza di superare anche in questo campo le secche del formalismo. Qui finalmente ogni esperienza non è pili fine a se stessa, ma poggia su di una elaborazione teorica precisa dei vari problemi da risolvere. Ne fanno fede i vari scritti che Piscator e Brecht accompagnarono alle loro esperienze, preziosi ancor oggi per inquadrare il problema e tracciare le prospettive ancora valide. Piscator compi la sua grande esperienza di attualizzazione di un classico con la messinscena de I Masnadieri di Schiller, rappresentato al Teatro di Stato di Berlino 1'11 settembre 1926.L'operazione fondamentale compiuta da Piscator nei confronti del testo di Schiller fu, a parte l'impiego di costumi «senza epoca,, ma in realtà molto moderni, quella di dare un segno positivo e una maggiore importanza al personaggio, in Schiller malvagio, di Spiegelberg, il rivoluzionario per convinzione polltica, e di aver ridotto alquanto sullo sfondo quello di Karl Moor, il rivoluzionario romantico e sentimentale, « con dietro le spalle un padre ricco e un castello principesco,. « Ciò - chiarisce Piscator - smaschera il pathos di Schlller, smaschera le sue deboli basi ideologiche>, e gli serve « per rispondere alla domanda se Karl Moor non fosse alla fine un buffone romantico, e la banda di briganti che lo

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