giovane critica - n. 7 - feb.-mar. 1965

mero, un elenco cronologico dei maggiori film americani dal 1915 al 1962 porta come capolavori del 1957 film come La porta della Cina (Fuller), Il gioco del pigiama e Cenerentola a Parigi (Donen), Le Girls (Cukor), Il pilota razzo e la bella siberiana (Sternberg), Mister Cory (Edwards), I fratelli Rico (Karlson), Delitto senza passione (Oswald), La figlia del dr. Jekyll (Ulmer) e Arianna (Wilder), relegando Orizzonti di gloria tra i film circondati da una « falsa reputazione>. « Il suo mestiere - dice sempre la stessa fonte, a proposito di Kubrick - è fare progetti, non fare film; la pubblicità e non il cinema. Potrebbe diventare il regista dei migliori provini di tutta la storia del cinema, ma per la sua progettata evoluzione artistica non c'è ormai pili niente da fare [ ... J. Che vale a un regista la vendita in anticipo del suo progetto al mondo intero, se ormai ha perduto la sua anima?>•. L'anonimo critico - che dev'essere Andrew Sarris - rimprovera significativamente a Kubrick l'applicazione in falso e invano di movimenti di macchina alla Ophtils « e la sua crescente riluttanza a esprimere la propria personalità evidentemente perversa >: se la prima osservazione non ha alcun senso e dovrebbe venire rovesciata (sono proprio i film di Ophlils a denunciare ormai irrimediabilmente la gratuità delle evoluzioni «cinematografiche>), la seconda è in realtà un elogio per un regista che non ha mai rinunciato ad affrontare criticamente l'assurdo, l'irrazionale, il perverso, senza mai abbandonarvisi in modo compiacente e passivo. Dopo Spartacus, a ogni modo, Kubrick abbandonava virtualmente gli Stati Uniti, trasferendosi insieme al produttore James B. Harrls In Inghilterra. Lo avevano preceduto altri registi americani, in questo viaggio verso il vecchio mondo: basti pensare a Orson Welles e a John Huston, due fra i migliori registi rivelatisi negli anni della guerra. Kubrick appartiene a un'ondata successiva: quella che segui al52 - ' le paure maccartiste, e raccolta sottraendo qualche giovane « testa d'uovo> al teatro di Broadway, o al giornalismo, o alla tv: la generazione di Frankenheimer, di Martin Ritt, di Arthur Penn, di Delbert e Daniel Mann, di Joseph Antony, destinata a rientrare nella routine dopo qualche occasionale risultato interessante, o paga di dissimulare una sovrana indifferenza ai temi e ai contenuti dietro un tecnicismo moderno e nervoso. Rimanere in una Hollywood non pili disposta a tollerare le voci isolate e ribelli di un Chaplin o di uno Stroheim, ma pronta a stipendiare Vadim e Serge Borguignon, era senza dubbio pericoloso; altrettanto può esserlo, peraltro, il confondersi tra gli espatriati e gli esuli dell'american way of li/e, spesso circondati, in Europa, da un'atmosfera molle e ingannevole, troppo vischiosa per consentire rigore e coerenza. (Si pensi alla sorte di Huston, attuale impiegato di De Laurentiis, dopo aver cercato, in Europa, una Parigi di maniera o un'Africa frivola e paradossale.) Il film americano ha indubbiamente una sua « nazionalità >: in certo senso è la vendetta postuma di quei ferventi patrioti che, all'indomani della rivoluzione americana, propugnavano addirittura lo abbandono della lingua inglese, ultimo legame con la madrepatria ripudiata. Di qui la frequente caduta, da parte dei registi americani attivi in Europa, in una lingua «ibrida» e priva di radici: lo si avverte anche in un'opera pili che rispettabile come Il processo di Welles. Ma Kubrick non si è buttato allo sbaraglio in modo romantico e sconsiderato: ha effettuato il suo « trasferimento » in modo commercialmente oculatissimo, appoggiandosi alla e Seven Arts > di J. B. Harris, e da quando risiede in Inghilterra - comprendendo che doveva evitare le tentazioni in lui sempre presenti dell'esterofilia e dell'imitazione di filoni estranei, mentre l'Inghilterra stessa non poteva essere, per lui, un allacciamento a tradizioni estetiche come per Henry James, o mistico-politiche come per Eliot -

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