giovane critica - n. 7 - feb.-mar. 1965

ferite, di momentanea incertezza, combattendo a tratti anche una e falsa lotta,. Ma forse (almeno questa resta la mia impressione) non piu, come invece si continua a credere in Europa, fra e stalinisti• e estetizzanti. Il fantasma dello stalinismo dovrebbe essere ormai dileguato, dopo la liquidazione politica della vecchia guardia dirigente (dogmatica) del partito comunista cubano. Semmai, fa comodo a certi intellettuali cubani nascondere la propria debolezza culturale e politica dietro il fantasma di uno stalinismo inesistente. La dialettica del dibattito sta altrove. In poche parole (naturalmente, si tratta di giudizi sommari): 1 - Urgenza di un approfondimento culturale per ogni scelta: uscire ormai dal periodo degli 'assaggi' e dall'antinomia per cui o si opera senza la consapevolezza di una cultura moderna e razionale, oppure si idolatra, si cade in estasi, si imita scolasticamente ogni artificio culturale, ogni moda che venga dalla Francia, dall'Italia, ecc. E si girano film (o si propongono sceneggiature) alla maniera di: Antoniani, Resnais, Godard, Marker, Germi, ecc. Naturale che per i primi passi si scelgano dei modelli, dovunque, e piu complessi sono meglio è. I guai cominciano quando l'imitazione diventa ripetizione pigra, liscia liscia. Invece mi pare assai feconda l'attenzione che i cineasti cubani portano al miglior cinema italiano: a Rosi, in particolare, da cui ricavano suggerimenti di concretezza sociale ed esempi di densità e scioltezza narrativa (la e sdramma~izzazlone ,, come dire la caduta di certe formule canoniche di Intreccio e di giustapposizione del personaggio-protagonista). Probabilmente, proprio le incombenze dell'industria stanno per sprovincializzare Il cinema cubano: parrebbe strano, ma in questa situazione l'industria costringe l'autore a regolarsi non secondo Il capriccio o l'estro Intellettualistico, ma secondo un lavoro a contatto con il pubblico, un pubblico che merita ri26 - spetto e non demagogia; in altre parole, l'industria agevola le condizioni - fermo restando il libero dibattito - da cui esce una produzione media di notevole livello, non avversa ad (eventuali) esperienze d'arte. Inoltre, l'industria - congiunta al processo d'alfabetizzazione che prepara il nuovo spettatore - si trova in grado di spezzare la spirale antiquata: o la prospettiva del realismo socialista o la prospettiva delle rimasticature cerebrali dell'alienazione. Posizioni non antagoniste ma simmetriche e complementari, come si sa: si appoggiano scambiandosi le parti, una produce l'altra per continui contraccolpi e oscillazioni. Falsa rivoluzione la prima, falsa avanguardia la seconda: il cosiddetto realismo socialista suscita la nausea della propria verniciatura sociale e scatena il narcisismo dolente dell'individuo che passa senza indugio al gergo prezioso del e foro interiore•; ma l'astruseria snobistica della cultura ascellare (secondo l'espressione cubana: axilar o de la sobachera, ossia l'ascella: per dire di uno che si esibisce di continuo con un libro, per es., di Proust sotto il braccio) genera nausea negli spettatori, che disertano in massa le proiezioni. A questo punto il dogmatico si fa avanti reclama e propone a nome del popolo sano. E via discorrendo. 2 - In genere, parecchi cineasti, mi sono sembrati a rimorchio della rivoluzione, arrivano troppo in ritardo rispetto al corso e ai 'tempi' della rivoluzione: in fondo, spesso sono estranei alle sue misure dialettiche, all'epica delle sue contraddizioni. Se per giudicare la rivoluzione e la vita quotidiana (collettiva o intima, dell'individuo), non avessimo altro mezzo che il cinema, ne ricaveremmo un'immagine impallidita, generica. Prima, negli anni passati, commentavano (ora schiettamente ora scolasticamente) i' fasti' neorealistici della rivoluzione; gli eventi militari, gli episodi visibili a occhio nudo. Adesso si presenta il còmpito di prendere coscienza della nuova situazione rivo-

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