giovane critica - n. 7 - feb.-mar. 1965

fessione di fede artistica, espressa dal regista nel pieno del fervore culturale sul nuovo cinema italiano e sulla particolare concezione dell'uomo e del suo rapporto con il mondo che esso implicava, avvicina Antonioni, fin dalle sue prime cose ad una linea di interessi artistici tipici del decadentismo italiano: un decadentismo sprovincializzato, che nella narrativa aveva avuto l'espressione più alta con Pavese. A questa tipica sensibilità egli è riconducibile soprattutto se si considerano alcuni aspetti del suo linguaggio e del suo modo di elaborare la materia narrativa. Poniamo attenzione, ad esempio, alla costruzione del personaggio, in cui coglieremo appunto una caratteristica di tale gusto. Colpisce, alla lettura dei Sei film il notevole scadimento della forza del discorso antonioniano - laddove essa sia raggiunta nell'immagine -: uno scadimento, cioè, che supera l'ovvio scolorire della forza espressiva quando esso venga trasfuso in altri modi per i quali non è stato organicamente concepito 2 • Sembra quasi di assistere ad un processo inverso a quello che il regista - in una prefazione apparentemente cosi dispersiva, eppure indicativa del modo suo di atteggiarsi dinanzi agli uomini, alle cose - chiama 'latensificazione ', per cui la pellicola, sottoposta a tale procedimento chimico, rivela elementi della realtà che l'occhio umano è incapace di cogliere, in forza di una elevata messa a fuoco di tali elementi. In verità questa scarsa concretezza, che pure ha un corrispettivo nella realizzazione filmica, questa imprecisione dei lineamenti dei personaggi antonioniani, in cui altri scorge piuttosto il segno di una dissoluzione della sua funzione nel racconto contemporaneo (facendola quindi partecipe di analoghi processi di corrosione della narrativa europea) appare invece come un modo tipico del suo stile, che mira più a definire un ambiente, l'atmosfera in cui essi sono calati, che i personaggi stessi. Di qui nasce quel senso di non definito, indetermi16 - nato dei protagonisti de La notte o de L'eclisse e di cui è indizio non trascurabile la lettura delle sceneggiature. Vi è una pagina di Pavese in cui, parlando in terza persona di se stesso e del suo stile, egli accenna ad una riduzione a simbolo del personaggio e che ci sembra possa adattarsi senza alterazione alcuna allo stesso Antonioni: « Quando Pavese comincia un racconto, una favola, un libro, non gli accade mai di avere in mente un ambiente socialmente determinato, un personaggio o dei personaggi, una tesi. Quello che ha in mente è quasi sempre soltanto un gioco indistinto, un gioco di eventi che, più che altro, sono sensazioni e atmosfere. Il suo còmpito sta nell'afferrare e costruire questi eventi secondo un ritmo intellettuale che li trasformi in simboli di una data realtà [ ...). Nasce di qua il fatto, non mai abbastanza notato, che Pavese non si cura di creare personaggi. I personaggi gli servono a costruire delle favole intellettuali il cui tema è il ritmo di ciò che accade,. Si confronti questa affermazione con quanto il nostro regista dichiara a proposito delle sue prime esperienze di regista: « Le stesse cose reclamavano un'attenzione diversa, una suggestione diversa [ corsivo mio. V. A.). Guardandole in modo nuovo, me ne impadronivo. Cominciando a capire il mondo attraverso l'immagine, capivo l'immagine. La sua forza, il suo mistero [ corsivo mio. V. A.] [...l Cosi è nato Gente del Po. Tutto quello che ho fatto dopo, buono o cattivo che sia, parte di li [ ... l >. Si pensi, in questa direzione, al paesaggio invernale del Grido, il cui ruolo di protagonista della vicenda va oltre il significato retorico che talvolta si attribuisce a questa affermazione. Cosi pure l'ambiente naturale de L'avventura o ancora la periferia, cosi vuota di presenza umana, ne La notte o L'eclisse. O, Infine, il mondo industriale rappresentato ne Il deserto rosso. Questo atteggiamento nei confronti delle

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