No tizie siciliane Attendevamo col massimo interesse che Giuseppe Zagarrio, autore di un recente lzbro su Sicllla e poesia contemporanea (apparso per i tipi dello Sciascia), fornisse le sue « ra• gioni » di emigrato-fuori dell'isola a noi emigrati-nell'isola. Definizione quest'ultima che ci qualifica in parte e che invece non crediamo attagliarsi a Leonardo Sciascia. Proprio per• ché, a differenza di Sciascia, no11 ci sentiamo aderire pienamente, colla ragione e coi senti• menti, al ceppo della 'sicilianità'; non abbiamo la pazienza - che ha Leonardo - di scovare in essa, nella sua storia, situazioni e personaggi dalla allarmante 'modernità'. Conosciamo Labriola assai meglio che Pitrè; e nell'ultimo romanzo di Roversi ci ritroviamo assai pizi che non in tanta letteratura e poesia siciliana d'oggi (eccezion fatta per quel prodigioso libriccino di Mario Farinella che rimane, sono parole di Zagarrio, « tra le poche cose vera• mente belle di tutto il dopoguerra poetico siciliano»). Senza che questo ci sposti di un met.ro verso 'Roma' o altrove, verso i centri del benessere editoriale; preferiamo, almeno tendenzialmente, rimanere, a fare i conti con questa dannata realtà: ma rifiutiamo la condanna di cui parla il Trombatore. Esistono difatti nella cultura italiana tendenze di svi• luppo tali da consentire di lavorare in periferia con la stessa lunghezza d'onda adoperata al centro. Proprio allo scopo di evitare quella duplice « distrazione » in cui incappa la cultura di origine o collocazione siciliana, e di cui parla Zagarrio nel suo libro. Da un canto una cultura - da certi aspetti di Vittorini all'opera pur cosi nobile di Dolci al Lampedusa al cinema meridionalizzante: questo al grado pizi deteriore e pizi colpevolmente evasivo - che tende a fare della Sicilia una voce « consumata»: schivando cioè la progettazione etico-politica dei rimedi, la organizzazione della rabbia secolare. Dall'altro il « provincialismo » tronfio di sé, la chiusura e l'orgoglio separatistici, la difesa acritica e feti· cizzante delle proprie caratteristiche e individualità: rifiutando di misurarsi con la storia che modifica e innova atteggiamenti e coscienze. «[ ... ] cerco di far passare il cammello dell'Italia (e conseguentemente dell'Europa: non mi piace dire Occidente) per la cruna della idea che ho della Sicilia [ ... ] ». Questo è il punto nevralgico. E lo stesso Sciascia ce ne dà un esempio magistrale col suo ultimo testo, Una candela al santo una al serpente. che funge da introduzione, nel volume Feste religiose in Slcllla (Leonardo da Vinci, 1965) a 120 fotografie, del nostro collaboratore Fer• nando Scianna, in cui una Sicilia apparentemente tradizionale penetrata da un occhio modernissimo acquista un volume e una ricchezza di gradazioni dain;ero inconsuete. In un tempo in cui qualche venerando del movimento operaio mette in cornice i « santi » del marxismo e - mentre numerose circostanze oggettive gli fanno eco - vorrebbe che quest'ultimo oscillasse (paurosamente) tra Iliciòv e se stesso, Sciascia scopre (o meglio, come spesso accade nella storia della cultura, ri-scopre; ché altri lo avevano preceduto su questa strada), da illuminista recidivo e impenitente, che persino noi siciliani, ufficialmente cattolicissimi (e di quel cattolicesimo di marca spagnola), non abbiamo tutte le carte della metafisica in regola. Come quel « burgisi » onestissimo e sommamente devoto cui bastava però che andasse a male il raccolto o gli piombasse in casa una malattia « perché si scatenasse contro san Benedetto e gli altri suoi patroni, e con un rito bestemmiatorio assolutamente originale: si cavava il berretto, e stringendolo tra le mani in modo da lasciarvi una stretta imboccatura, in questa so/fiava i nomi di san Benedetto e di altri santi di cui era devoto; dopo di che, chiudendolo ermeticamente, per suggellar dentro il soffio di quei nomi, se lo poneva sotto i piedi, a pestarlo: e intanto sputava e bestemmiava ». E sono pa. gine in cui l'illuminismo rivela tutta la sua carica liberatoria, la sua attualitll amara ma non del tutto disarmata. [g. m.J. -11
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