giovane critica - n. 6 - dic.-gen. 1964-65

14cesso stesso di tale riduzione lo distrugge. Egli dà cosi la dimostrazione nel campo del romanzo, come Eliot in quello della poesia, che i valori della società che rappresenta sono in uno stato decisivo di decadimento; che il mondo dell'uomo, in quanto mondo dell'individuo singolo, è privo di ogni significato sociale; e che perciò il problema del destino umano, della « prospettiva ii, deve necessariamente scomparire dall'orizzonte degli interessi decisivi dell'artista. Ora il lungo arco compreso tra gli esordi artistici di Chaplin e il compimento della sua maturità espressiva si colloca in un periodo in cui l'isolamento dell'artista moderno è un fatto compiuto: quando cioè in letteratura si dibattono, esasperate, le eredità proustiane e joyciane, e nell'arte musicale e in quella figurativa - con l'emancipazione rispettiva dall'armonia consonante e dalla formulazione oggettiva della nozione di spazio - il rivolgimento di stampo soggettivistico assume fisionomie sconcertanti. Quale atteggiamento tiene Chaplin in proposito? Egli non si rinserra nell'espediente accorto, ma assai comodo, di respingerne le semplici affinità formali, ignorando il problema della loro genesi; se cosi fosse, la sua opera non renderebbe giustizia alle determinazioni sociali di cui è materiata, e finirebbe con lo scomparire tra la massa delle produzioni mediocri, scarsamente significative o anacronistiche. Il punto di vista soggettivo come misura regolatrice dei rapporti oggettivi della società del nostro tempo occupa in Chaplin un posto di un certo rilievo; numerosi elementi di deformazione consapevole del reale si infiltrano nella sua opera; e, specialmente nella piti recente, vi divengono visibili alcune delle tendenze sociali che sfigurano la personalità dell'uomo e ne alterano il rapporto col mondo oggettivo. Pur tuttavia il principio generale della rappresentazione, di stampo saldamente umanistico, media l'antagonismo soggettivo del contenuto e si contrappone cosi decisamente al principio stilistico da cui muove la narrativa novecentesca. Chaplin non pretende, affinandosi, di spersonalizzarsi, invisibile e indifferente al proprio lavoro ( secondo l'ideale joyciano dell'artista), ma questo lavoro via via definisce e controlla, non solo stilisticamente, in tutta quanta la sua strutturazione prospettica. Tant'è vero che egli tenta il passaggio dalla short-story alla narrazione distesa, al romanzo, proprio negli anni in cui Joyce, impegnato a fondere nella complicata orchestrazione polifonica dell'Ulysses le escogitazioni del futurismo e quelle del vorticismo di un Windham Lewis, di Ezra Pound e del loro gruppo, si accinge alla dissoluzione conclusiva della forma del romanzo. ( Valga il confronto delle comiche chapliniane realizzate per la Keystone, l'Essanay o la Mutua}, con The Kid, The Pilgrim, A Woman of Paris, o meglio ancora con la grande epopea di The Gold Rush.) In qual senso si può quindi individuare in Chaplin la coesistenza entro lo stesso principio artistico di forme che si presentano come antitetiche nella loro

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